Final Portrait. L’arte di essere amici, di Stanley Tucci

Tucci interviene di alleggerimenti, tentativi brillanti e aperture di defaticamento per lo spettatore che assiste a questi 18 giorni di sfida tra Giacometti e il suo modello d’eccezione.

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Basta portare l’attenzione per qualche attimo alla colonna sonora per sezione d’archi di Evan Lurie per capire che la Parigi fuori dallo studio di Alberto Giacometti, nel film di Tucci, è una cornice di familiarità astratta che non ha alcun interesse ad andare oltre alla riconoscibilità del cliché, come appunto alcuni passaggi “francesizzanti” dello spartito, piuttosto interessante, di Lurie: per il resto del tempo, sia il suono della musica di accompagnamento, sia il mood dell’intera messinscena nel ventre creativo dell’artista parlano chiaramente la lingua nervosa e spezzettata dell’off-Broadway, della performance contemporanea – per restare ad un titolo musicato da Lurie, più che ad un Woody Allen parigino, a cui forse vuole guardare, questo Final Portrait finisce ad assomigliare a quell’Interview diretto da un altro attore irrequieto come Steve Buscemi.
Oltre alla struttura da camera portata all’esasperazione dei nervi dei due giocatori protagonisti della partita di pazienza e lavoro ai fianchi, i due film spartiscono una ricerca ossessiva, forse anche forzata, di un senso di inquietudine, dato dalla claustrofobia unita alla resa schizofrenica del personaggio bigger than life che la storia racconta: e qui Geoffrey Rush restituisce uno Giacometti di una modernità metropolitana forse lontana dalla verosimiglianza storica quanto aderente all’abituale lavoro di interiorizzazione clinica che l’interprete dona alle sue interpretazioni.

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final portrait Clémence Poésy Geoffrey RushTucci a quel punto interviene soprattutto di alleggerimenti, tentativi in direzione “brillante” e aperture di defaticamento per lo spettatore: peccato che finisca così per mantenere l’indagine sull’anima nascosta del tormentato e infantile Giacometti ad un livello di superficialità spesso frustrante (soprattutto in alcune “riflessioni” sull’arte nei dialoghi, poco più che constatazioni distratte), a cui pare voler rimediare poi con istanti di pathos affidati a ralenti della disperazione dello scultore tra adulterii alla luce del giorno e pedinamenti dinoccolati nella notte alcolica e alla deriva.
Se Final Portrait finisce comunque per essere qualcosa di più del racconto di una eccentricità – i 18 giorni passati dallo scrittore James Lord a posare per un suo ritratto, dipinto da Giacometti, che all’inizio avrebbe dovuto impiegare poche ore, poi raccontati nel libro Un ritratto di Giacometti, alla base della sceneggiatura – è probabilmente merito delle sorprendenti figure di contorno, dalla moglie dell’artista fino alla prostituta che ne fu musa e amante, al fratello e assistente Diego (uno straordinario Tony Shalhoub), al principale contendente della prova di Rush, ovvero Armie Hammer nel ruolo di James Lord: se in alcuni istanti sembra fraintendere la rigidità prevista dal ruolo, Hammer è in ogni caso il contrappunto preciso al disordine e al caos dell’esistenza di Giacometti, della quale il suo personaggio diventa testimone privilegiato per un paio di memorabili settimane.

Titolo originale: Final Portrait

Regia: Stanley Tucci

Interpreti: Geoffrey Rush, Armie Hammer, Clémence Poésy, Tony Shalhoub, Sylvie Testud, James Faulkner

Distribuzione: Bim

Durata: 90′

Origine: Gran Bretagna/Francia, 2017

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