HOMEWORKS – Born to be blue, di Robert Brudeau

Ethan Hawke riesce a trasmettere la via crucis interiore e l’ansia da prestazione di Chet Baker che, come Toro Scatenato, ha il vero nemico riflesso davanti allo specchio di un camerino

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Almost blue
Flirting with this disaster became me
It named me as the fool who only aimed to be
Almost blue
It’s almost touching
It will almost do
There is part of me that’s always true
Always…
Almost Blue – Elvis Costello/Chet Baker

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Alla base di questo lungometraggio di Robert Brudeau sta un suo corto del 2009 intitolato The Deaths of Chet Baker interpretato da Stephen McHattie, in cui il regista canadese immagina gli ultimi momenti della vita del grande artista con i possibili finali alternativi: incidente, suicidio, omicidio? Ecco, l’approccio di Born To Be Blue non è quello documentaristico di Let’s Get Lost di Bruce Weber (1988), pieno di interviste e di materiali d’archivio, immagini dei concerti e musiche originali, ma quello della biografia romanzata con varianti fiction, e un particolare zoom sul periodo della vita più misterioso, quello che va dal 1966 ai primi anni settanta. In questo periodo Chet Baker, dopo l’aggressione di uno spacciatore che gli fa saltare l’arcata dentaria superiore, si ritira per allenarsi a suonare la tromba nonostante l’invalidità.

La maggior critica al film di Brudeau viene dai fans del grande jazzista: nessuna composizione originale usata per la colonna sonora, l’avere concentrato le relazioni sentimentali in quella con Jane Azuka (Carmen Ejogo), avere scelto il troppo avvenente Ethan Hawke per interpretare Chet Baker, essersi preso la libertà di inventare fatti e avvenimenti (uno su tutti il locale Birdland a New York chiuse nel 1965, è inverosimile il concerto di Chet nel finale del film).
In realtà Born to be Blue è un’opera che proprio elaborando materiale finzionale arriva a carpire il cuore malinconico di un jazzista tormentato dal proprio talento, prima in lotta con sé stesso e poi con il mondo. Come nelle splendide liriche di Elvis Costello l’abitudine di Chet Baker a “flirtare con il disastro” lo ha certo reso più triste e disilluso ma non per questo meno vero.

Ethan Hawke regala una interpretazione straordinaria nel rappresentare questa voluttà del dolore e il circolo vizioso di dipendenza in cui arte e amore non possono coesistere. Nella prima parte del film vediamo tutti i pezzi del puzzle che determinano lo stato conflittuale di Chet: il battesimo di fuoco con Charlie “Bird” Parker, la rivalità professionale con i miti Miles Davis e Dizzy Gillespie (ai quali vuole dimostrare di essere l’anima swing bianca della West Coast), la dipendenza di eroina come esorcismo di tutte le paure, il risentimento del padre (Stephen McHattie) che gli ricorda di avere infangato il nome della famiglia, la tormentata storia d’amore con Jane in cui rivivono gli incubi di gelosia del primo matrimonio con Elaine. Tra flashback che fanno parte di un film sulla “vita dell’artista da giovane” e frammenti di un passato che pesa come un macigno, Ethan/Chet fa trasparire quel comportamento malinconico e autolesionista che lo condurrà a una morte precoce cadendo dalla finestra di un hotel di Amsterdam nel 1988.

Al di là di certi luoghi comuni sugli innamoramenti e tradimenti, di certi paesaggi balneari sul modello tardo romantico, Robert Brudeau riesce a trasmettere tutta la via crucis interiore e l’ansia da prestazione di un uomo che, come il Jack La Motta di Toro Scatenato, ha il vero nemico riflesso davanti allo specchio di un camerino. Eccezionale nel sottofinale la “My Funny Valentine” cantata da Ethan Hawke con il cuore in gola, con rapidi sguardi verso la propria donna e poi nel finale la toccante “I’ve never been in love before” sbattuta in faccia a Miles Davis come una vendetta, ma con un prezzo altissimo da pagare.
Perdersi e perdere definitivamente l’amore. In fondo Chet Baker ha vissuto la propria esistenza pagando tutto sulla propria pelle, sempre sul ciglio di una finestra, con un semplice soffio di tromba pronto a farlo cadere giù. Almost Blue.

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