How to save a dead friend, di Marusya Syroechkovskaya

Un’opera intima e politica che nella sua frammentazione trova l’ordine nell’amore e nella vita. Vincitore del Rome International Documentary Festival 2023

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Prima c’era la canzone How to save a life dei primi anni duemila che è diventata poi la colonna sonora di Grey’s Anatomy e il testo ad un certo punto dice:  Where did I go wrong? I lost a friend. Qui una ragazza ha perso un amico e tenta di salvarlo dopo la sua morte. Composto da filmati domestici girati da Marusya Syroechkovskaya durante la sua adolescenza e la prima età adulta, il film è una storia personale di lei e Kimi, una studentessa di storia che ama allo stesso modo sia Alessandro Magno che Kurt Cobain. È una narrazione soggettiva, intima e personale. Marusya racconta quindi il rapporto che costruisce con il suo ragazzo: i pianti, le risate, gli abbracci, il matrimonio anticonvenzionale, la rottura e infine la continuazione di una radicata amicizia. Una storia scomposta, frammentata che trova la sua ragion d’essere nella ricerca di trovare un ordine in una storia di solitudine, depressione e dipendenza. La storia di una ragazza che pensa di morire e trova la vita in un ragazzo che a sua volta disprezza la vita. Kimi muore e lascia un testamento che lei decide di far riemergere con una sorta di documentario/intervista che gli dà voce. Kimi non ha paura di morire, “è più difficile risorgere” dice ad un certo punto, perché con la morte arriva la fine di tutto mentre risorgere significa tornare alla vita e alla sofferenza. Più è forte il dolore, la solitudine, gli aghi conficcati nella pelle, l’autolesionismo e il desiderio di morte e più la vita scalpita, va in superficie.

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Una storia di vita personale a cui si mescola una carrellata della storia Russa dell’ultimo millennio con immagini di scontri, di discorsi di auguri di fine anno e di emarginazione giovanile. La solitudine di Kimi è l’espressione di una generazione che non ce l’ha fatta, che ha deluso le aspettative dello Stato di giovani lavoratori. Un’opera di sentimento, che dà importanza a un protagonista che ha sempre voluto vivere dietro le quinte. Una voce fuoricampo che non pesa ma che racconta con tono quasi vivace alleggerendo così una storia di sofferenza e solitudine che ha trovato un unico aggancio in un amore poi trasformato in amicizia.
L’omaggio a Trainspotting è palese, dal tatuaggio Born Slippy alla maglia con sopra Lou Reed, come presa di posizione di un ragazzo che “ha scelto”. E quella scelta più viene sottolineata nel corso dell’ intervista e lo spettatore abbandona così ogni tentativo di cambio di prospettiva e possibilità di iniettare una dose di speranza in un corpo vuoto e buio. La regista ridà voce ad un amico morto con una leggerezza incompatibile con la disperazione piena di Kimi che non trova uscita.

Toccante, disperato e con un tocco di umorismo, Marusya Syroechkovskaya porta con sé la memoria dell’amico, ritrovandosi ad affidarsi alle immagini per rivederlo. Forse è proprio così che si ridà la vita.

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