I am not everything I want to be, di Klára Tasovská

Gli scatti della fotografa Libuše Jarcovjáková raccontano la biografia della fotografa ceca, considerata la ““Nan Goldin della Praga sovietica”. BERLINALE74 – Panorama.

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Il docufilm della regista ceca Klára Tasovská sulla vita e l’arte della fotografa sua conterranea Libuše Jarcovjáková, presentato nella sezione Panorama della 74esima Berlinale, nasce da un sodalizio artistico che é ancor prima amicizia, atto di fede. Libuše affida il suo immenso archivio fotografico (usava scattare foto consecutive per poi svilupparle e conservarle tutte), i suoi diari e la sua dolorosa memoria alla giovane filmmaker, che avrebbe dovuto realizzare un prodotto cinematografico per la TV ceca, e che invece dopo cinque anni di duro lavoro ci regala un’opera che é molto più di un’autobiografia, perché come afferma lei stessa in un’intervista: “Per me il personale è politico, volevo mostrare l’ambiente da cui Jarcovjáková proveniva, la situazione che l’ha spinta a lasciare il Paese per andare prima a Berlino Ovest e poi a Tokyo. Ma nelle foto emergono temi ancora molto contemporanei come quello dell’identità sessuale”.
Con un originalissimo montaggio fatto da una sequenza di fotografie, selezionate tra gli oltre 3000 negativi messi a disposizione dall’artista, che scorrono in modo dinamico secondo una ben precisa linea temporale e sembrano quasi animate grazie alla voce narrante della stessa Libuše, alla musica rigorosamente contemporanea in contrappunto alle immagini in bianco e nero e agli effetti sonori (ci sono rumori ambientali, voci di sottofondo) che le accompagnano, lo spettatore ripercorre la vita della fotografa: dalla repressione della Primavera di Praga del 1968 ai tentativi di inseguire la sognata libertà attraverso l’arte, le amicizie, il sesso. Per dare ritmo e leggerezza ad una narrazione fotografica che vive e respira anche da sola al di fuori di un preciso contesto, Klára Tasovská ha collaborato con il montatore Alexander Kashcheev a una sorta di sceneggiatura, che tuttavia non incide sul ritratto responsabile e brutalmente onesto di Libuše.

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L’artista a Praga negli anni della contestazione usa infatti la sua fotografia come mezzo di espressione e contestazione di una realtà in cui la rivoluzione si é rivelata un’illusione; immortala lavoratori marginalizzati, omosessuali nei bar, sé stessa nuda, che si masturba, che si accompagna ad amanti uomini e donne, dopo l’aborto; è assidua frequentatrice del T-Club, luogo sotterraneo simbolo della scena queer – quando allora essere queer era pericoloso come dichiara la stessa Libuše – in cui farà incontri importanti trovando una vera famiglia e susciterà con i suoi scatti nel locale l’interesse della polizia a seguito di un omicidio commesso nel club. Ma per le sue foto eccentriche e scomode non c’è consenso né un luogo disponibile ad esporle. Da qui la voglia di raggiungere la libertà a Berlino Ovest grazie a un matrimonio per procura, ma anche in Germania la situazione non è facile, e allora vola a Tokyo con gli ultimi risparmi, dove diventerà una ricercata fotografa di moda. Quello orientale é mondo nuovo ma non per questo scevro di ostacoli, così, insoddisfatta anche del Giappone, dove non si sente a suo agio con sé stessa, e sempre nell’instancabile tentativo di approdare ad una autenticità artistica ed esistenziale, ritornerà a Praga passando per Berlino dopo la caduta della cortina di ferro, dove riesce a catturare i momenti più significativi di un evento epocale quale la caduta dell’Unione sovietica. L’artista si mostra coraggiosamente e onestamente, senza veli in senso fisico e metaforico, senza retorica piuttosto con grande generosità, per questo la sua arte poetica e imperfetta arriva dritta allo spettatore, che non può non cogliere e al contempo condividere quella che per la Jarcovjáková diviene una necessità impellente ovvero quella di sentirsi libera e di restare fedele a sé stessa, alla sua ispirazione e infine al suo dilemma, riassumibile nelle ultime parole del docufilm “Penso che non smetterò mai di chiedermi chi sono veramente”.

Libuše s’impegnerà con costanza per tutta la sua vita a restare libera, da qui la scelta di non formarsi una famiglia, di accettare lavori umili (come la cameriera in hotel) pur di non lavorare per il regime, di cercare l’amicizia con la brillante storica e critica d’arte Anna Fárová, che, dopo aver firmato nel 1977 Charta 77 ovvero il Manifesto con cui molti intellettuali chiedevano al governo centrale maggiori libertà civili e politiche, fu immediatamente rimossa da tutti gli incarichi pubblici. Nonostante la gente temesse di avvicinarla Libuše le telefonò, ottenne grande supporto dalla Fárová e fu inclusa in importanti progetti a cui collaborarono anche fotografi come Cartier-Bresson, Martine Franck, Ribaud; poi però abbandonò il gruppo ritenendolo troppo strutturato mentre lei voleva essere libera. Il racconto della sua vita artistica è semplice nella forma e intenso nei contenuti, è potente, coinvolgente, ha il sapore della sua perenne lotta alla ricerca della libertà sopra tutto, dell’identità sessuale, all’insegna delle lotte quotidiane, secondo il mantra dell’esistere/resistere che permea l’intero viaggio di Libuše dentro e fuori sé stessa, tanto da farsi tatuare sul braccio il motto “never complain – never explain”.

Anche se raggiunge tardi la notorietà, guadagnandosi dal New York Times l’appellativo di “Nan Goldin della Praga sovietica” nel 2019, quando le sue opere vengono esposte ai prestigiosi Les Rencontres de la Photographie di Arles, la Jarcovjáková porta avanti il suo percorso artistico con l’entusiasmo e l’ironia di una ragazzina: sul palco della prima del docufilm insieme alla regista sorride, scherza, si emoziona, si commuove, si sorprende quando riabbraccia dopo quasi 50 anni il suo marito per procura, inaspettatamente tra il pubblico… e con la sua inseparabile macchina fotografica mentre si regala scatti insieme al pubblico invita tutti alla sua prossima mostra a Berlino!

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