Il capitano Volkonogov è scappato, di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov

Il film sconta la ripetitività del meccanismo narrativo, ma trova una fascinazione visiva autentica nella sua ambientazione e nelle atmosfere. In concorso a #Venezia78

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È davvero strano il modo in cui risaltano le tenute rosso fiammante degli agenti del servizio di sicurezza nazionale sovietico. Sportive, molto contemporanee, con tanto di giacca di pelle, si distinguono dallo spento grigiore della “massa” indistinta che percorre le strade di Leningrado. Una nota accesa di colore, quasi di vita. Se non fosse che quegli agenti sono, letteralmente, gli angeli della morte. Chi li incontra sul loro cammino, ha le ore contate. E sono i tanti “elementi inaffidabili”, non graditi al regime staliniano, interrogati con “metodi speciali” e giudicati in maniera sommaria, sulla base di false accuse di terrorismo o spionaggio. Il capitano Volkonogov è uno degli agenti più efficienti, un torturatore freddo e impassibile, muscoli d’acciaio, macchina automatica no anima. Nessun dubbio, nessun pensiero, nessun rimorso. Almeno in apparenza. Perché, quando si avvia uno dei consueti processi di epurazione interna, Volkonogov decide di scappare e si ritrova davanti al fantasma di un suo caro amico, che gli predice le pene eterne dell’inferno. A meno che non trovi qualcuno disposto a perdonarlo per i crimini commessi. Ed ecco che inizia il viaggio infernale alla ricerca di una redenzione, forse impossibile. Un viaggio che assomiglia a una via crucis da videogame, fatta di livelli, azione, inseguimenti, incontri con vari personaggi che segnano il grado d’avanzamento del protagonista. È un percorso di salvezza tutto pratico, quasi burocratico, lontano dalla tormentata densità dei dilemmi morali del collezionista di carte di Schrader (che affronta questioni abbastanza simili). Ma che si dispiega nello scenario di una città surreale, abitata da miseria, degrado e disperazione, sventrata pur tra i segni della sua bellezza monumentale. Nel cielo rosso, all’improvviso, si staglia un dirigibile inquietante. Ed è quasi il suggello, la traccia impossibile di una gloria fantascientifica.

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Ecco. Il film di Natasha Merkulova e di Aleksey Chupov sconta la ripetitività del meccanismo narrativo, con le sue tappe di progressione fascicolare e i flashback metodici, e costringe la sua dimensione spirituale in un tono fantastico e in una simbologia fin troppo scoperta. Ma trova una fascinazione visiva autentica nella sua ambientazione e nelle atmosfere, nei suoi campi lunghi e i suoi movimenti continui. E quasi si avverte l’eco di alcune immagini di Aleksey German Jr., ma depotenziate della loro complessità compositiva e scosse dal ritmo muscolare dell’azione, dalle corse a rotta di collo, dalla tensione dell’intrigo. E, in questo senso, rimane impressa la grande prova fisica del protagonista Yuriy Borisov, che si carica sulle spalle il film. Come una croce. Fino alla fine.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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