Interiors by David Lynch, a Thinking Room. L’installazione al Salone del Mobile

Abbiamo visitato le stanze del pensiero di David Lynch allestite durante la Milano Design Week. Un’esperienza che conferma il percorso dell’artista nei territori inesplorati dell’inconscio

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Alla Milan Design Week di quest’anno l’evento più importante è stato indubbiamente la doppia installazione di David Lynch presentata al Salone del Mobile di Rho a cura di Antonio Monda e con il contributo tecnico del Piccolo Teatro di Milano e dello studio Lombardini22.

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Interiors by David Lynch. A thinking room si è dato a vedere come un dittico di due stanze identiche installate al limite dei padiglioni comunicanti 5 e 7 (dediti ai mobili e ai complementi d’arredo), quasi che volessero specchiarsi.

Avevamo già parlato di Lynch per un video eccezionale, e ne torniamo a parlare per un’installazione eccezionale in cui predomina l’interior design e che, a detta di Lynch stesso (nell’intervista che trovate nel video Discovering Interiors qui sotto), non deve avere nulla a che fare col cinema.

La doppia creazione di Lynch è talmente più pregna di senso (anche nella sua ermeticità) se paragonata a tutto ciò che abbiamo visto durante i giorni del design che merita una riflessione a parte si vuole parlare della Milan Design Week del 2024. Lynch sembra ormai essere diventato una sorta di antenna che capta idee e le traduce in una forma sempre diversa per ambito, ma sempre riconoscibile per gesto, per visione, per poetica.

Torneremo successivamente in altri articoli sui vari Saloni del design di quest’anno.

Ora: sappiamo benissimo come Lynch sia un artista a 360° che esprime sé stesso attraverso ogni veicolo di senso gli capiti tra le mani. Nasce come artista e poi diventa regista di cinema, mai abbandonando però i precedenti ambiti (la pittura per esempio) e aprendosi a nuovi campi (la musica per esempio).

Non sorprende quindi la sua passione per il design, che anzi si è ben vista ogni volta che i suoi film hanno mostrato degli interni, facendoci notare sicuramente una scelta ponderata da parte del regista, e possibilmente un suo tocco concreto nella creazione degli oggetti.

Tutto rientra nell’ottica di veicolare un messaggio che non è mai intellegibile logicamente, ma si presenta sempre come gesto poetico, un gesto da porre come domanda allo spettatore, in un’ottica splendidamente duchampiana.

E’ probabile che Lynch avesse pensato ad un solo visitatore alla volta (forse per un tempo limitato ma comunque non breve) ed è probabile che avesse anche voluto un profondo silenzio nella stanza (magari insonorizzata). Tutto questo forse non è stato possibile per il clash avvenuto tra il tipo di fruizione immaginata e la realtà di un contesto fieristico di tale portata.

Trattandosi però di un gesto poetico forte ovviamente Lynch arriva lo stesso dritto nel nostro cervello.

Attraverso un tendaggio spesso, ed ovviamente rosso, che in forma circolare avvolge le due stanze, si entra in uno spazio d’attesa scuro in cui la prima cosa notabile è una lunga fila di avventori, curiosi, devoti, usciti dalla modalità affaristica per entrare in una modalità “cogitante”.

L’anticamera della stanza è un ambiente ovattato con pareti scure le cui dominanti sono blu e nero e il tutto è illuminato da piccoli ma potenti sagomatori.


foto di Daniele Ratti

Pensiamo sia possibile che questa anticamera sia parte dell’installazione stessa, e non solo un luogo di attesa. Pensiamo quindi che la thinking room sia l’ambiente circolare oltre le tende rosse in ogni suo angolo e dettaglio, e che la lunga coda sia stata debitamente preventivata dall’artista come parte di un percorso di autoriflessione (e infatti stare in fila così a lungo è sicuramente un modo per fermarsi e pensare).

Il lento movimento della coda avviene a fianco a foto e ad uno schermo dove viene trasmesso un video in cui Antonio Monda intervista un sempre più gioioso Lynch (si è giustamente usato l’aggettivo camp). Delle foto appese, seguendo Lost Highway, ammettiamo di non ricordare molto e pensiamo che questa “confusione paramnestica” sia volutamente indotta dall’artista stesso.

Finita la coda si entra in un corridoio profondamente buio, creato esclusivamente per disorientare, e le cui pareti in stoffa non restituiscono particolare solidità.

Oltre il corridoio si entra nel cuore della thinking room, o forse nella thinking room vera e propria.

Nel ricordo essa ci pare tuttora avere le caratteristiche di una cappella di clausura. Come se Lynch abbia voluto creare una specie di cappella religiosa dedita ad un nuovo culto. Forse il culto di Eraserhead (al di là del suo dire l’installazione distaccata dal suo cinema, e pensando alla dichiarazione “Eraserhead è il più spirituale dei miei film“).

Pensando alla simmetria di una stanza che vede un trono in legno laccato d’oro davanti ad una parete che mostra un’immagine industriale in bianco e nero (che può benissimo derivare da Eraserhead) notiamo come il nuovo culto possa essere sia verso questa pesante industrializzazione fatta di ciminiere fumanti e panorami inquietanti, sia verso una sorta di parità tra l’icona eraserheadiana e chi siede sul trono, cioè l’avventore al culto.

Quasi che il culto si formasse non in devozione ma in equilibrio tra due fattori: l’icona e l’essere umano (non “il devoto”).

L’icona dovrebbe forse ispirare l’umano a disegnare (vengono dati materiali per farlo) ma anche solo scrivere od osservare, scrutare queste ciminiere, questo paesaggio industriale in bianco e nero che apparentemente poco lascia a sentimenti di gioia e benessere.

La pesantezza del trono in legno laccato d’oro (una struttura esagerata in qualunque contesto, ma di più in uno spazio piccolo come questo) sembra alludere alla pesantezza del nostro essere finiti ma capaci – se volessimo – di liberarci nel gesto creativo davanti all’ispirazione.

Le dominanti nella stanza sono soprattutto il blu e appunto l’oro (con – ci pare – elementi di nero e di rosso).

Nell’intervista vista prima di entrare Lynch spiega che il blu sia “soothing”, quindi abbia questo potere rilassante e forse curativo.

La thinking room deve essere uno stacco dallo stress quotidiano per entrare in connessione con noi stessi, rilassarci e lasciarci ispirare dalla bellezza di un terribile paesaggio industriale in piena attività e ripreso in bianco e nero.

E non possiamo neanche essere sicuri di trovarci davanti ad un tratto della famosa ironia spietatamente comica di Lynch, per come l’abbiamo incontrata in tutto il suo cinema.

Il trono ha tubi sottili che potrebbero ricordare quelli per il gas, e che vanno da sopra la testa di chi si siede al soffitto in un intreccio da sembrare una ragnatela. Il soffitto è quello tipico di un laboratorio industriale.

La stanza ha grandi pareti blu scure tonde, ruvide e bitorzolute al tatto, pareti che ricordano le ciminiere presenti nel poster/icona davanti al trono. Da lontano queste pareti nella penombra sembrano tende, facendoci pensare a come l’oggetto “tenda” sia sempre e comunque alla base di un salto che l’artista chiede di fare o di almeno immaginare per passare da uno stato ad un altro.

Alle pareti sono appese alcune foto tra cui un quarto di bue e una folla di islamici in preghiera (se non ricordiamo in modo errato).

Infine in prossimità del varco di uscita un orologio si muove verso chi lo guarda alternando la prossimità prima dei minuti e poi delle ore, o viceversa.

Distanti da chi vuole trovare una logica nell’interpretazione di Lynch e stando invece dalla parte di quegli esegeti che usano territori “alternativi” per, se non capire, almeno descrivere l’immaginario dell’artista americano, la thinking room sembra un esempio cristallino di visione potente.
Forse Lynch ci sta chiedendo di entrare nella thinking room per abbandonare il senso logico compiuto e passare ad una forma di “de-pensiero” per cogliere angoli dello scibile normalmente nascosti.

Potremmo azzardare e dire che il trono per “disegnare” è allo stesso tempo sia troppo semplice per essere solo una sedia su cui sedersi e creare in santa pace, sia troppo complesso come tema (la parità tra icona – o tra divino – e artista) per poterlo riportare alla semplicità di una seduta di design.

Il corridoio nero disorientante si presenta anche all’uscita, fino a quando non giriamo un angolo e vediamo dall’interno le tende rosse illuminate da luci esterne.

Uscire significa tornare nel nostro mondo quotidiano provenendo da un luogo distaccato.

Come se la thinking room tutta fosse una meditazione.

Nell’intervista citata Lynch fa differenza tra una thinking room e una meditation room.
Per questo il dubbio che la thinking room sia tutta una meditazione ci scuote. Il dubbio cioè di non essere entrati nella thinking room per pensare ma di essere entrati proprio nel pensiero.

Probabilmente però il contesto non è dei migliori. Il brusio del Salone che vuole vendere e non perdere tempo è troppo forte per non essere sentito. Forse avrebbe più senso vedere/entrare nella thinking room in un contesto museale. Ma in questo modo si perderebbe lo stacco da una dimensione stressante ad una dimensione rilassante. Forse ricordiamo male ed invece era tutto in perfetto silenzio. E siamo noi ad avere troppo caos nella testa.

David Lynch gioioso sta nel suo studio e guarda il cielo.

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