Io ti salverò, di Alfred Hitchcock

Dal romanzo di Beeding e con la supervisione di Dalì per le sequenze del sogno, uno degli Hitchcock meno convincenti del regista. Da oggi in sala in versione restaurata.

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Si sa, è assodato che il regista inglese è da considerare tra i più grandi maestri della “suspense”, tanto che certa critica, soprattutto quella francese, è arrivata ad attribuirgli un’ascendenza filosofica. Ma la veemenza del suo cinema non si placa in un vanaglorioso compiacimento intellettuale: l’io del titolo siamo tutti noi che assistiamo impotenti ai rischi corsi dal personaggio, smaniosi di tendere una mano, partecipando emotivamente più che cognitivamente nell’attesa che passi il pericolo. Restare sospesi, imbrigliati ed ammaliati, lasciarsi ingannare per non rimanere increduli: provare emozioni che l’incredulo non conosce e subire quella “dolce malattia” che è più piacevole della stessa salute. La dolce malattia che Hitchcock rappresenta nella sua lunga e complessa cinematografia, nasce dalle sue ossessioni, e anche dal fatto che i disturbi psichici possono “giustificare” una serie di comportamenti abnormi, tipici della suspense. Dolce malattia perché Hitchcock non filma pezzi di vita, ma pezzi di torta: la malattia mentale non è mai totalmente invalidante, mai completamente occludente la realtà, totalmente isolante e chiusa nei propri percorsi deliranti. Il cinema del maestro è un evento traumatico trasposto sul grande schermo, elemento doloroso, spesso delittuoso, allontanato dalla memoria del personaggio che, nutrendo angosce di colpa persecutorie, ne determina una psiche turbata.

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Io ti salverò, tratto dal romanzo The House of Dr. Edwardes, di Francis Beeding, ha come protagonista Costanza Petersen (Ingrid Bergman, al suo primo film con Hitchcock), una giovane psicologa che lavora nella clinica psichiatrica diretta dal dottor Murchison (Leo G. Carroll) che sta per essere sostituito dal dott. Antonio Edwardes, identità dietro la quale si nasconde quella di un giovane affetto di amnesia (Gregory Peck) e sospettato dell’omicidio dell’uomo di cui si è impossessato della personalità. Costanza si innamora di lui e si fa aiutare dal suo vecchio professore di psicanalisi per scoprire la sua identità e il vero assassino di Edwardes.

Nelle intenzioni del regista doveva ispirarsi alla psicoanalisi, ma neanche l’intervento dello sceneggiatore Ben Hecht (profondo conoscitore del pensiero freudiano), e la supervisione di Salvador Dalì per le sequenze del sogno, furono sufficienti a convincere i più intransigenti. In effetti sono molte le stonature e le licenze rispetto alla realtà psicoanalitica, rappresentata più come una procedura di tipo magico-religioso, che garantisce l’happy end, insieme all’amore incondizionato e poco deontologico della Bergman per il paziente/amante Gregory Peck. Ma Hitchcock è un’ombra ben “sagomata”, che si è mossa sempre dentro il cinema commerciale per il grande pubblico. Uno sperimentatore che non ha mai sprecato un centimetro di pellicola per sè stesso, fabbricando attrazioni, muovendosi, quando necessario, tra la trasparenza e gli altri continenti (mentali) della messinscena.

 

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Titolo originale: Spellbound
Regia: Alfred Hitchcock
Interpreti: Ingrid Bergman, Gregory Peck, Jean Acker, Rhonda Fleming, Donald Curtis, John Emery, Leo G. Carroll, Norman Lloyd
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 111′
Origine: USA, 1945

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
4 (3 voti)
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