Jennifer Jason Leigh, single white female
Ha compiuto da poco 51 anni Jennifer Jason Leigh. Niente cifra tonda per l’anniversary party di un’attrice che ha sempre rifiutato gli stereotipi andandosi a cercare ruoli scomodi, disattendendo le aspettative con un’immagine poco rassicurante in linea con la ricerca espressiva del grande cinema americano anni Novanta, raccontato da Altman e Cronenberg.
Lunghi capelli castani e aria innocente, Jennifer Jason Leigh fa il suo ingresso nel cinema americano attraversando i corridoi del Ridgemont High, nel primo fortunato script di Cameron Crowe sulle note della canzone di Tom Petty.
Un’immagine e un ruolo che sembrano già contenere in nuce tutto il suo futuro d’interprete. Perché quella che appare come la classica american (high school) girl, nel corso del film – Fuori di testa in italiano, Fast Times at Ridgemont High in originale (ricordato soprattutto per un memorabile Sean Penn, nei panni del surfista sempre fatto Jeff Spicoli) – consuma velocemente la sua prima volta in uno scantinato umido e rimane incinta per un breve rapporto nella dependance della piscina,offrendo per giunta un nudo quasi integrale alla macchina da presa.
Disattendere le aspettative, contraddire una certa apparenza e spiazzare con parti sgradevoli e personaggi sempre al limite diventa per la Leigh il centro di una pratica attoriale che si fa sempre più scrittura, in un intreccio inestricabile tra l’icona cinematografica e la donna privata che confluirà nell’esperimento di Anniversary Party.
In una manciata d’anni, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, Jennifer Jason Leigh si trasforma da vittima predestinata in carnefice: un passaggio consumato tra la cameriera ostaggio di Rutger Hauer in The Hitcher e la coinquilina psicotica di Inserzione pericolosa, ruoli che cancellano pian piano dal suo volto le rotondità rassicuranti di ragazza di provincia per lasciar emergere quella scintilla folle che la guida nella ricerca di ruoli scomodi, in linea con la tendenza di un nugolo di interpreti che negli anni Novanta sembrano rifiutare l’immagine perfetta della Diva hollywoodiana in favore di una quotidianità ribassata e a tratti molesta.
Il manifesto di questa tendenza è senz’altro il grande affresco altmaniano di America oggi, profetica raffigurazione di un’America smarrita e impaurita, in cui la consueta asprezza della Leigh trova eco nelle mai rassicuranti Lili Taylor e Julianne Moore, pressoché coetanee e tutte con all’attivo una filmografia eccessiva e vibrante che non tralascia eros, violenza, dipendenza, malattia.
Una doppiezza perturbante che Altman riconduce, da grande narratore, a quella di un Paese a sua volta dilaniato dal conflitto tra immagine di facciata e disfacimento interiore e che Barbet Schroeder aveva invece declinato secondo le regole di genere, in un thriller erotico giocato sull’emulazione e il sotterraneo erotismo dell’amicizia femminile.
Nel suo Single White Female (Inserzione pericolosa), la Leigh vampirizza letteralmente l’esistenza della sua compagna d’appartamento Bridget Fonda (vincendo a mani basse, se mai qualcuno avesse il dubbio, la competizione interpretativa…) mutando aspetto e atteggiamento fino a sovrapporsi perfettamente all’immagine vincente dell’amica, come un doppio speculare e malato.
Gli anni Novanta, come detto, sono il punto massimo della sua carriera d’attrice, il momento in cui il cinema americano sembra più incline a raccontare storie di disagio, privilegiando piccole produzioni e volti, come quello della Leigh, assolutamente distanti dai canoni estetici apollinei (e in un certo senso reazionari…) tornati di moda nel nuovo millennio.

Allora ha forse un senso che il suo ultimo grande ruolo sia una postilla sugli anni ’90, in un altro grande affresco, ancora una volta in anticipo sui tempi: eXistenZ di David Cronenberg, dove è la game designer Allegra Geller, sorta di Virgilio al femminile di un Jude Law che andrà a sperimentare l’ultimo tassello del discorso poetico di Cronenberg sulla nuova carne.
Creatrice del game pod, Allegra discetta sulle infinite possibilità di un corpo in continua espansione, pronto a farsi penetrare e rigenerare. Personaggio assolutamente conturbante, quello di eXistenZ è un canto del cigno per la carriera della Leigh, il compimento di una parabola attoriale sviluppata proprio attorno a un uso disinibito e cosciente del corpo portato qui all’estremo.
Due anni dopo è pronta per passare dietro la macchina da presa, con l’esperimento interessante, per quanto non riuscitissimo, di Anniversary party, meta-riflessione sul ruolo della star, sulla maschera e la persona vissuta come una seduta collettiva di auto-analisi da parte di una cerchia hollywoodiana costituita dagli amici di una vita, incontrati lungo i tanti set: dalla coppia Kevin Kiline e Phoebe Cates a John C Reilly e Gwyneth Paltrow, Jennifer e il coautore e protagonista Alan Cumming si espongono all’interno di questa glass house a tutti i vezzi e gli stereotipi attorno alle nevrosi emotive della star.
Nel film, sorta di mockumentary sugli stessi protagonisti, ci racconta come “qualcosa si sia incrinato in lei”, nella sua Sally (di lì a poco vestirà gli abiti di un’altra Sally, la Bowles, nel Cabaret di Sam Mendes a Broadway), attrice di successo che sembra aver però perso il tocco.
Confessione autobiografica o tentativo di esorcismo, il plot anticipa il leggero declino degli ultimi anni, in cui il grande schermo le offre piccole parti, da In the cut di Jane Campion alle opere dell’ex marito Noah Baumbach. Compare invece in tv, in Weeds, la serie che più di tutte sembra ripercorrere le atmosfere e la sfida implicita al perbenismo meticolosamente inseguite in una galleria di personaggi mai arrivati al grande pubblico eppure in grado di definire un’epoca.