#SentieriSelvaggi30 – John Belushi, Una dolcissima “ape da una tonnellata” (#6)

Tratto dal libro di Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi, John Belushi – L’anima blues in un corpo punk: il comico demenziale (1996), Roma, Sorbini Editore

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Il 1 aprile 2018 sono trascorsi 30 anni dalla nascita della rivista di cinema Sentieri selvaggi: la celebriamo, giornalmente, attraverso una serie di articoli, news, eventi, commenti e altre storie.

Ci sono diversi John Belushi. C’è da un lato il Belushi ‘mito’, oggetto di culto, sorta di icona/souvenir, da appendere come poster nelle stanze post-adolescenziali o sulle magliette come fosse Che Guevara; dall’altro ci si trova di fronte a quell’unica ‘definitiva’ biografia che quel ‘monumento’ del giornalismo americano che è Bob Woodward gli dedicò due anni dopo la scomparsa, che sembra chiudere ogni possibile discorso sul personaggio-Belushi, gettando su di lui un’ombra ‘maligna’, corpo sfatto immerso nel mondo dello show business e massacrato da questo, con la droga a far da protagonista assoluta della sua vicenda. Ma, da un altro punto di vista ancora, abbiamo le testimonianze di coloro che lo amarono in vita, amici, moglie, parenti, che rovesciano

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John Belushi

completamente le tesi di Woodward, giungendo quasi a farci credere che John fosse un ‘bravo ragazzo’… In mezzo a queste tre strade ci si ritrova poi di fronte al fatto concreto che la stampa, l’editoria e il mondo della comunicazione tutt’intero ha operato nei suoi confronti una sorta di ‘rimozione’ totale: non c’è un libro su Belushi, non c’è un programma televisivo, nemmeno degli articoli, che non risalgano a tantisimi anni addietro. Paura di scontrarsi con la ‘versione definitiva’ data da Wired ? Paura di confrontarsi con il mito di Belushi (e forse anche con quello di Woodward)? Certo è che su John Belushi non è mai stata fatta alcuna riflessione critica, ed egli sembra rimanere comunque un perfetto sconosciuto.
Sembra quasi che di Belushi si possa solo narrare le vicende biografiche, come se tutti fossero soltanto attratti, morbosamente, dal percorso che lo conduce dalle esperienze teatrali attraverso la TV e il cinema, in un tunnel pauroso e terribile che lo ha portato alla sua tragica morte, quel 5 marzo del 1982. Come se la sua morte, il come egli è morto, condizioni a tal punto ogni riflessione da indirizzarne anche l’atteggiamento critico, o addirittura storico biografico. Questo è, probabilmente, il danno maggiore che il libro di Woodward ha fatto.
E il silenzio domina sul personaggio Belushi. Ma viene il sospetto che questo silenzio, questa ‘rimozione’ nasconda altre ‘rimozioni’, storicamente più grandi del personaggio Belushi, ma che Belushi stesso in qualche modo, rappresenta e fa riaffiorare.

 

john belushiUNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA

John Belushi non è una meteora comparsa per caso nell’America degli anni ‘70. John è un pezzo della sua generazione, e di questa ha vissuto i momenti magici, come pure le improvvise ‘sparizioni’.
C’è uno sketch del Saturday Night Live ambientato in una centrale di polizia, dove un detective serissimo chiede le generalità a Belushi: “Io sono Jack Kerouac”, risponde John, che è vestito come Marlon Brando ne Il selvaggio. E’ un flash, una scheggia impazzita dell’universo belushiano. Eppure sembra raccontare altre cose, tante cose. Come quello di una sorta di filo rosso, invisibile, che lega Belushi e i suoi compagni, il suo gruppo, la sua ‘generazione’, ad altre generazioni, come quella cosiddetta ‘beat’. Circa quarant’anni fa i giovani americani (ma il fenomeno divenne per la prima volta ‘planetario’) scoprirono la necessità e l’urgenza della ‘ribellione’. E lo fecero attraverso i mezzi che l’industria culturale loro offriva, rovesciando i meccanismi, rompendo degli ingranaggi ben consolidati. Sia che si guardi al mondo dei letterati e scrittori (la vera ‘Beat Generation’ da Kerouac a Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Burroughs, ecc…), sia che si guardi al panorama musicale (la nascita del rock’n’roll), che a quello cinematografico (i ‘ribelli senza causa’ di un Dean o di un Brando), un po’ ovunque le nuove generazioni si ribellarono al mondo costruito dai loro padri, quel mondo che per liberarsi dell’Olocausto aveva creato, a sua volta, Hiroshima e Nagasaki. Ma che soprattutto aveva creato la società ‘omologata’ del dopoguerra, la crescita del ceto medio e la diffusione dello ‘stile di vita americano’. E’ a questo tipo di conformismo che si ribellò la generazione “figlia dell’atomica e della cocacola’, come alcuni la definirono, che negli anni ‘60 si trasformò in movimento di massa, che cercava di minare le basi stesse della società capitalistica americana. Dal non accettare le convenzioni, i miti e le garanzie sociali, fu facile il passaggio alla strada, alla rivolta assoluta, per una vita i cui valori andavano completamente rovesciati (e nessuna istituzione ne uscì indenne, dalla famiglia allo stato, dall’esercito alla chiesa, ecc…). E’ in questo trambusto sociale e culturale, gli anni ‘70, che ‘cresce’ John Belushi, nato nel 1949 e che quindi ha 19 anni nel ‘68. Le cronache ci narrano di un Belushi già, involontariamente, ‘divo TV’ (e il futuro cognato Bob Jacklyn che racconta: “lo vidi in televisione prendersi addosso un getto d’idrante alla manifestazione alla Convention Democratica di Chicago”). Come uno dei tanti giovani di allora Belushi partecipa alle manifestazioni, porta i capelli lunghi, contesta la guerra nel Vietnam, vive insomma l’epoca controculturale, che è fatta anche di realtà alternative (hascisc, marijuana, e altre cose della ‘rivoluzione psichedelica’). Ma questa generazione vede agli inizi degli anni ‘70 come interrotto il suo sogno di liberazione, e alcune ‘delle loro menti migliori’, invece di autodistruggersi o di rinchiudersi nel ghetto, provano altre strade, come quella di impossessarsi dei mezzi di comunicazione, ma dall’interno.

 

IL COMICO DEMENZIALE

E’ la strategia che pratica una rivista come National Lampoon, che opera sulla satira una vera e propria rivoluzione, rompendo la figura dell’intellettuale classico, e scontrandosi e appropriandosi di ‘tecniche di consumo’ fino ad allora appartenenti solo ai ‘colossi’ dell’industria culturale. Quindi riviste, spettacoli teatrali, trasmissioni radiofoniche, in un iperattivismo di cui Belushi diviene presto parte integrante. E il suo arrivo alla TV, a quel Saturday Night che lo consacrò presso il grosso pubblico, è quasi un passaggio ‘naturale’. E’ quel passaggio che il Washington Post commentò cosi: “I giovani di questa generazione negli anni ‘50 adoravano la TV, negli anni ‘60 la detestavano e ora, negli anni ‘70 stanno tentando di appropriarsene”. E’ la nascita di quello che verrà più tardi chiamato il “comico demenziale”. Belushi è il cuore, il corpo e l’anima di questa comicità. E sembra quasi che la scelta della comicità sia ‘necessaria’. Per sbattere al muro le convenzioni, per avere un terreno fertile su cui operare, anche perché il comico è il genere che più degli altri si presta alle infinite variazioni critico-satiriche, alla follia surreale, all’inverosimile, alla possibilità reale di “distruzione”. Ma del comico Belushi & Co. riprendono le componenti più trasgressive e innovatrici: il recupero della comicità irriverente e fracassona dei fratelli Marx, la critica all’american way of life di un Jerry Lewis, il mescolamento di generi e narrazioni operato da film come Helzapoppin. Il demenziale nasce negli Stati Uniti proprio come risposta (produttiva) alla crisi ideologica della sinistra vecchia e nuova, cercando di superare la ‘cultura della crisi’ operando e lavorando dal di dentro l’industria dell’immaginario. In questo senso Belushi e il demenziale hanno molte parentele con i movimenti europei, che si svilupparono intorno al ‘76-’77. Movimenti che alcuni hanno definito ‘terminali’, come ultima spiaggia di un ciclo di lotte destinate alla sconfitta, poi, negli anni ‘80. Ma in realtà il demenziale e il punk, influenzeranno, con il loro ‘stile’, con le pratiche di ‘rimescolamento’, di irriverenza ‘ideologica’ e di pratica di dissoluzione’ tutta la cultura contemporanea, dalle arti, alla moda, alla musica, al cinema. E forse l’intero cinema degli anni ‘80, che rilegge i generi, e li rimescola in un’operazione di ‘frullamento’ dell’immaginario (vedi Spielberg e Lucas) sarebbe stata forse impossibile senza il demenziale.

 

BELUSHI MULTIPLICITY

Ma Belushi va ancor più a fondo, perché opera come un vero e proprio ‘corpo multimediale’, coinvolgendo nel suo percorso teatro, TV, cinema, musica, ma contemporaneamente il suo è anche multiculturale (il mettere insieme il rock’n’roll, rhitm’n’blues, il punk) multietnico (cattolico, albanese, e ‘afroamericano’ nello stesso tempo) ecc… Perché lui “che odiava i nazisti dell’Illinois”, operò insieme a Dan Aykroyd forse il più significativo recupero – attraverso il blues – della cultura nera. Tutto ciò che è tipicamente “wasp” è completamente lontano dal mondo di Belushi, che è un mondo fatto di mescolamento di razze, di gusti, di generi, di mondi diversi. Belushi e il demenziale hanno operato un completo rovesciamento dell’ottica protestante e calvinista del capitalismo americano, rimettendo il ‘piacere’, il divertimento, lo svacco e il godimento al primo posto nella scala dei bisogni umani. E fa niente se per queste cose uno ci può anche lasciare le penne, ognuno è responsabile della sua vita. Ballare all’impazzata, saltare, cantare e fare le piroette come i Blues Brothers rappresenta uno degli ultimi tentativi di ‘liberazione culturale’ operato all’interno dell’industria dell’immaginario.
Purtroppo la morte di Belushi funzionerà quasi come uno spartiacque e rigetterà indietro, simbolicamente, molte delle ‘conquiste’ ottenute. Il corpo innanzitutto. Finalmente – con Belushi – non più ‘costretto’ dentro degli archetipi ben precisi, dei modelli culturali che negli anni ‘80 trionferanno (fittness, body building, ecc). Il corpo grasso, sporco e unto di Belushi è la riappropriazione massima di se stessi. Si può essere così ed essere ‘belli’, e anche atletici, disinvolti e travolgenti. Disse Belushi in una delle rare interviste: “I miei personaggi dicono che va bene essere incasinati. La gente non deve necessariamente essere perfetta. Non deve essere intelligentissima. Non deve seguire le regole. Può divertirsi. La maggior parte dei film di oggi fa sentire la gente inadeguata. Io no”.
Pochi hanno riflettuto sulla lucidità di queste parole di Belushi. Fare in modo che gli altri si sentano a proprio agio nel mondo, fuori dai canoni stabiliti dall’alto, da qualcuno che vuole venderci ‘come dobbiamo aspirare ad essere’. E’ in questa vocazione ‘cristologica’ che sta tutta la grandezza di Belushi (che guarda caso muore proprio a trentatré anni…sarà un caso?). Quello che muore ‘per tutti noi’ nello sperimentare una vita diversa, possibilmente più libera, migliore. Non quello che ci ha rappresentato Woodward, di un grassone insicuro alla continua ricerca dei soldi e del successo.

 

MORTO BELUSHI, VIVA BELUSHI

E allora andiamo a rivederci tutti insieme l’incredibile ‘film TV’ di pochi minuti realizzato per il SNL: Don’t Look Back in Anger (rovesciamento del “ricorda con rabbia” dei giovani arrabbiati inglesi degli anni cinquanta, precursori del Free Cinema). Belushi è un vecchio che si reca nel cimitero di Brooklyn. E’ tutto ricoperto di neve, ed egli si muove lentamente, con addosso un pesante cappotto scuro. “Credevano tutti che sarei stato il primo ad andarmene – dice – certo io ero uno di quei tipi alla vivi in fretta muori giovane e lascia un bel cadavere… si sbagliavano. Eccoli qui tutti i miei amici… qui giace Gilda Radner, ..e là riposa Laraine… è morta di complicazioni durante un’operazione di chirurgia estetica…e la c’è Garett Morris, morto di overdose…e lì Chevy Chase, morto dopo il suo primo film con Goldie Hawn. E qui Dan Aykroyd. Amava troppo la sua Harley. Andava a 250 chilometri all’ora al momento dell’incidente. Di lui non è rimasto molto. Chiamarono me per identificare il corpo. Lo riconobbi soltanto dai piedi palmati…. Il Saturday Night è stata la più bella esperienza della mia vita. Adesso se ne sono andati tutti e a me mancano tutti quanti. Perché sono rimasto proprio io? Perché sono vissuto così a lungo mentre loro sono morti tutti? Ve lo dico io il perché! Perché io sono un ballerino!” e comincia a ballare volteggiando tra le tombe. Tom Schiller, il regista, raccontò che Belushi fece tutto in un’unica ripresa, cambiando il tono della voce, improvvisando, nella battuta finale.
Fa impressione rivedere questo filmato, perché mentre da un lato rovescia apparentemente quello che sarà il vero futuro, da un altro appare come una profezia, come un grido immaginario, di chi sa che di lui resterà presto solo ‘la sua opera’, il suo personaggio. E’ Belushi che oggi è realmente ancora vivo. Gli altri protagonisti del SNL sono ‘morti’ in una realtà fatta di piccole commedie, o apparizioni rare in TV. E, incredibilmente, Don’t Look Back in Anger ci riporta in mente il Morto Troisi, Viva Troisi, operando un accostamento apparentemente impossibile, eppure così forte, così im-mediato. Due corpi-comici che hanno trovano nella morte prematura (anche se completamente diversa) una loro definizione ‘mitica’. Pur essendo, in fondo, delle persone ‘semplici’, col solo ‘difetto’ di “voler cambiare il mondo”. E allora, rivendendo Belushi che fa l’ape, o nei panni del capitano dell’Enterprise di Star Trek, o come Hulk, nell’imitazione incredibile di Joe Cocker, o ancora come Bluto in Animal House, come giornalista d’assalto in Chiamami aquila, oppure in quell’incredibile figura archetipa di Jack ‘Blues Brother’, viene impossibile nascondere una certa, malinconica, nostalgia. Per quello che Belushi era e avrebbe potuto essere. Qualcuno dovrebbe prendere tutte le sue performance al SNL e ri-mostrarle al mondo intero. E’ un peccato che al mondo Belushi sia noto soltanto come quell’uomo vestito di nero, col cappello nero che si nasconde dietro quegli occhialoni neri. Ma non è stato proprio John Carpenter (ricordate Essi vivono?), altro personaggio non riconciliato e non riconciliabile del cinema contemporaneo, a rivelarci che sono proprio gli occhiali neri a farci vedere realmente il mondo?

p.s.: L’ape da una tonnellata era la canzone dei Ventures (The 2000-Pound Bee) che Belushi chiese, diversi mesi prima di morire, a Dan Aykroyd di far suonare al suo funerale. E Dan lo accontentò.

 

Tratto dal libro di Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi, John Belushi – L’anima blues in un corpo punk: il comico demenziale (1996), Roma, Sorbini Editore

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