KAZAN Elia, un gelido antagonista a Hollywood

L'emigrato, il comunista, il traditore. Nel '52, davanti alla commissione maccartista, denunciò alcuni ex compagni del partito comunista, tradimento che restò una macchia indelebile. Kazan in qualche modo, si auto-annientò. È impossibile non piangere con lui per la purezza perduta, per le speranze dissolte ma anche per la bellezza del suo cinema.

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Elia Kazan l'emigrato, il comunista, il traditore. È stato protagonista del teatro e del cinema americano dagli anni Trenta agli anni Settanta passando attraverso la più radicale forma di antagonismo – si iscrive al P.C. Usa nel 1934 – fino alla delazione nel 1952 davanti al Comitato per le attività anti-americane. «Processato» per non aver ubbidito alle direttive del partito, si dimette nel 1936 e quasi vent'anni dopo denuncia i colleghi che finiscono nella lista nera. Si dice che negli ultimi anni il regista di Un tram che si chiama desiderio abbia espresso privatamente il suo pentimento ma questo non ha impedito a Nick Nolte e virtualmente a molti altri di incrociare le braccia e sottrarsi all'applauso quando nel 1999 gli fu consegnato l'Oscar alla carriera. Tra i grandi di Hollywood, ha diretto: Barriera invisibile ('47); Boomerang ('47), Pinky la negra bianca ('49); Un tram che si chiama desiderio ('51), Viva Zapata ('52); Fronte del porto ('54); La valle dell'Eden ('55); Baby Doll ('56) Splendore nell'erba ('61) Il ribelle dell'Anatolia ('63); Il compromesso ('69); Gli ultimi fuochi ('76). Elia Kazan è morto ieri nella sua casa di New York. Aveva 94 anni. Era nato il 7 settembre a Kadi Keu, un sobborgo di Instanbul con il nome di Elia Kazanjoglous, da genitori di origine greca. La solitudine di chi appartiene alla minoranza in un paese straniero e ostile lo contagia, lo perseguita e gli dà forza polemica, inquietudine e il dono di una critica feroce verso tutta quella gente ricca e wasp delle New England, incontrata mentre lavava i piatti a Manhattan per pagarsi gli studi. Ha solo quattro anni quando arriva in America, ma sarà sempre (o quasi) contro l'establishment e per la verità contro la verosimiglianza. «Io non sono un realista né un naturalista – diceva – io sono un essenzialista». L'essenza delle cose, questo gli interessava. Il padre vendeva tappeti e lui, dotato nelle materie scientifiche, dopo la Scuola d'arte drammatica dell'università di Yale, sceglie il palcoscenico, prima come attore poi come regista. La sua prima regia teatrale è del 1931, l'anno dopo entra nel Group Theatre di Lee Strasberg con il quale si ritroverà all'Actor's Studio (fondato insieme a Cheryl Crawford) la mitica scuola di recitazione, dove sono «nati» Marlon Brando, James Dean, Carrol Baker, Montgomery Clift, Paul Newman.

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È il 1947, un anno fatato per Kazan che vince a Broadway il premio della critica per All my sons di Arthur Miller e realizza per il cinema Boomerang, impressionante enigma poliziesco che inaugura un cinema della critica sociale. La sua opera è costellata di impulsi a «mettere in scena» l'ingiustizia e a travolgerla stilisticamente portando, con un movimento inverso, il cinema a teatro. Kazan, infatti, non trasferisce il dramma di Tennessee Williams (un suo trionfo a Broadway) sul grande schermo ma con il capolavoro del 1951 produce un corto circuito tra il sovrumano erotismo di Marlon Brando-Kowalski e la vedova vogliosa Vivien Leigh-Blanche DuBois. Oggetto del desiderio è lui, a sorpresa, l'aggressivo macho in canottiera. La recitazione degli attori costruisce il set nella stanza chiusa, ne è luce, ombra e fondamenta. Cos'è il Metodo? «È la rivolta contro il teatro eroico, romantico, retorico» risponde Kazan.
Il primo Oscar alla regia lo vince nel 1948 con Barriera invisibile (Gentleman's Agreement – tre statuette) dove Gregory Peck è un giornalista deciso a dimostrare, fingendosi ebreo, l'antisemitismo strisciante della società, non quello gridato ma quello «normale». Il film è accolto con un'ovazione di pubblico e critica, mentre in tempi più recenti viene ingiustamente catalogato come opera convenzionale (Roger Tailleur). Barriera invisibile, invece, è ancora oggi tutt'altro che consumato. Immerso in una strana immobilità sale verso l'allucinazione e la sottile linea del razzismo pervasivo. Una specie di dramma trattenuto, gelido, magnifico nel suo bianco-nero-grigio. Piace di più Pinky la negra bianca ('49) su una ragazza dalla pelle chiara ma di madre african-american, che cerca disperatamente di nascondere le sue origini. Ancora tensioni e contraddizioni per il cineasta non riconciliato che nel periodo della chiamata davanti al tribunale maccartista realizza Viva Zapata sulla lotta armata dell'eroe messicano nel 1909, Emiliano lo «spirito» che combatte sulle montagne anche nell'aldilà, ancora Marlon Brando riempie lo schermo. Il tradimento è consumato, Kazan ha fatto i nomi di otto compagni del Group Theatre, di quattro membri della League of Workers' Theatre e di tre funzionari del partito comunista. Chiamato a deporre il 14 gennaio 1952 riconosce di essere stato iscritto al P.C. per i nove mesi che vanno dall'estate del `34 alla primavera del `36, ma rifiuta di denunciare i vecchi componenti. Tre mesi più tardi, il 10 aprile, intimorito dalla minaccia di un'accusa per «oltraggio al Congresso» decide di collaborare. Parla, per giustificarsi, di «una vasta organizzazione che manipolava tutti i liberal di Hollywood e prendeva denaro». E riferisce di «uno stato poliziesco in seno alla comunità di sinistra di Hollywood». Il regista scrive nell'autobiografia Kazan par Kazan che anche dopo le dimissioni dal partito aveva continuato a credere nei comunisti, quelli russi: «Ma quando seppi del patto Stalin-Hitler rinunciai anche all'Urss».

La delazione di Kazan non è solo una macchia indelebile sulla sua carriera (in seguito sarà evitato dalla comunità hollywoodiana) ma segna anche la grande sconfitta di Hollywood, il cedimento all'inquisizione. E la fine dell'America rooseveltiana. La commissione di McCarthy bolla infatti come un-american non solo i comunisti ma i democratici, i liberal, il paese del New Deal e dello stato sociale. Ovviamente Elia Kazan non può saperlo, pensa soltanto a salvare la pelle e i suoi film, e poi tra i denunciati, si consola, due sono morti e due hanno lasciato il partito. Questa volta la ricerca della «verità» che tanto piace a Kazan si trasforma in una oscena farsa. Dalla parte opposta alla sua ci sono i Dieci di Hollywood, quelli che hanno resistito e sono stati massacrati. Kazan in qualche modo denuncia se stesso, non in quanto membro del Partito comunista, ma in quanto rappresentante dell'America migliore, regista combattente contro l'ipocrisia smascherata dal Gregory Peck di Barriera invisibile. Si auto-annienta. Ormai isolato, decide di fare il producer di se stesso e gira Fronte del porto ('54), immerso nelle polemiche e pieno di rabbia. Il film nasce per dimostrare la «necessità morale» della delazione, in diretta sfida con l'ex amico Arthur Miller che lo aveva inchiodato con The Crucible (1953) sulla resistenza di un uomo alla caccia alle streghe. Kazan cerca di «darsi ragione» e chiama Marlon Brando per la parte del portuale che spalleggia il corrotto boss del sindacato. Quando decide di testimoniare contro il gangster, i compagni lo lasciano perché ha infranto l'omertà. Bersagliato dalle critiche, il film, effettistico, ideologicamente pesante, gronda retorica. Magnifico come sempre Marlon Brando, che vince l'Oscar. Otto in tutto, compresa la regia. Premiato, ma sempre più in disparte, il regista «inventa» James Dean Nella valle dell'Eden, tratto dalle ultime 80 pagine del romanzo di Steinbeck. Film intimista e potente nello scontro padre-figlio. Indimenticabile, oltre allo «scandaloso», censurato sensualissimo Baby Doll ('56) con Carroll Baker da Tenessee Williams, anche un'altra storia d'amore impossibile, quella tra Natalie Wood e Warren Beatty, vittime del conformismo, Splendore nell'erba ('61). Kansas 1928, la Crisi è totale in questa struggente storia di Romeo e Giulietta separati dai genitori e perduti per sempre. Elia Kazan, al tramonto, si consegna ai suoi spettatori malinconico e disarmato. È impossibile non piangere con lui per la purezza perduta, per le speranze dissolte ma anche per la bellezza del suo cinema.

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Da "il manifesto" del 30/9/2003

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