La figlia oscura, di Maggie Gyllenhaal

Un film disunito e dalla regia poco leggera, ma che ha il pregio di raccontare l’urgente rivisitazione del ruolo della donna, dell’essere madre

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La giovane Leda studia letteratura comparata all’università. Quando scrive un saggio sulla poesia di Yeats, definisce le parole del poeta inglese ospitali e analizza i concetti di ospitalità e di attenzione, soffermandosi  sulla gentilezza, possibile solo dall’incontro delle due. Parole primordiali, riconducibili all’inizio di tutto, quando dopo il grande caos da cui si è generata la vita sulla Terra, l’essere umano si è andato formando dentro il primo grembo materno. Forse il luogo più ospitale di tutti, l’unico che ci riserva tutte le attenzioni necessarie prima del distacco, del passaggio dalla fusione al vuoto, quando  semplicemente prendiamo il nostro posto nel mondo. Ma le parole usate da Leda nel suo saggio brillante sembrano non riguardare lei come madre, e nella attuale e urgente messa in discussione dei ruoli di genere, le questioni dell’ospitalità, dell’attenzione e della cura materna, sono oggi fra le più discusse e sviscerate. E questo non perché rifiutate ma riviste, laddove si sente sempre più l’urgenza di liberare il corpo della donna da una visione che la vuole madre a tutti i costi e in un certo qual modo, in quanto biologicamente predisposta per questo.  E il cinema mostra sempre di più questa messa in discussione o meglio esprime l’urgenza di esplicitare ciò che da sempre è stato raccontato, da Madame Bovary e ancor prima, e di farlo attraverso più voci femminili possibile. Cosi in La figlia oscura Maggie Gyllenhal, per la prima volta dietro la macchina da presa, adatta al grande schermo il romanzo La figlia oscura di Elena Ferrante.

La storia si snoda fra il passato e il presente di Leda, interpretata da Olivia Colman e da Jessie Buckley nei flashback legati alla sua giovinezza, quando era ancora studentessa e giovane madre di due bambine. E questi flashback sono ricordi, ricordi che Leda rivive in vacanza in Grecia grazie all’incontro in spiaggia con la giovanissima madre Nina, interpretata da Dakota Johnson. Partendo dai temi cari a Elena Ferrante, Maggie Gyllenhaal ci parla principalmente della questione del ruolo della donna nella società, dell’essere madri e quindi inevitabilmente del corpo femminile (d’altronde Leda prende il suo nome da Leda e il cigno, poesia sui corpi). E sui corpi si sofferma a fondo, riprendendoli da vicino con una regia a tratti un po’ troppo pesante e forse didascalica nel suo intento. Ma la riuscita del racconto sta tantissimo nelle sue interpreti femminili, laddove il film è certamente un po’ disunito nella struttura ma ha comunque il pregio di farci ragionare (e non senza piccoli momenti di bellezza)  su una questione oggi di massima importanza, quella appunto della rivisitazione dei ruoli di genere. D’altronde al Lido tutto sembra essere iniziato tempo fa, basti pensare a Storia di un matrimonio e al discorso di Laura Dern sull’essere madri, e continua quest’anno con il remake di Scene da un matrimonio, di cui sono stati mostrati ancora solo due episodi ma la cui operazione sulla questione del genere sembra essere già abbastanza chiara.

 

Premio Osella per la miglior sceneggiatura a Maggie Gyllenhaal al 58° Festival di Venezia

 

Titolo originale: The Lost Daughter
Regia: Maggie Gyllenhaal
Interpreti: Olivia Colman, Dakota Johnson, Peter Sarsgaard, Ed Harris, Jessie Buckley, Dagmara Dominczyk, Paul Mescal, Jack Farthing, Robyn Elwell, Ellie Blake, Oliver Jackson-Cohen, Panos Koronis, Alexandros Mylonas, Alba Rohrwacher, Nikos Poursanidis, Athena Martin
Distribuzione: BIM Distribuzione
Durata: 121′
Origine: USA, UK, Israele, Grecia 2021

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
3.08 (12 voti)
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