La Paz del futuro, di Francesco Clerici e Luca Previtali

In Freestyle al #RomaFF17, il documentario segue l’artista Janet Pavone che torna in Nicaragua a quasi 25 anni dai suoi murales legati alla rivoluzione sandinista. Tra repertorio e diario di viaggio

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C’è un bellissimo libro per l’infanzia (al momento è al secondo posto nella mia personale top subito dopo Una zuppa di sasso di Anaïs Vaugelade) che si chiama piccolo blu e piccolo giallo, di Leo Lionni (vi giuro non è una pubblicazione pro-Zelensky). Le due macchie di colore si inseguono per tutta la storia, quando finalmente riescono ad abbracciarsi si fondono in un’unica macchia di verde, ma poi le due rispettive famiglie non li riconoscono più. Allora la macchia verde piange lacrime blu da un occhio e gialle dall’altro, e da quel pianto rinascono i due protagonisti, che possono tornare a casa. Questa storia di colori, abbracci e lacrime mi sembra parli anche un po’ del tempo, di come il tempo finisca per fondere insieme le tonalità in un colore unico, e di come l’utopia del riportare indietro il tempo (turning time around, that is what love is) per restituire vita alle singole tracce non sia certo un processo indolore. D’altronde, non è questo che cerca di fare il cinema che si focalizza sull’archivio? Illuderci che ci sia ancora tempo, che dentro a quella macchia di verde siano ancora riconoscibili una goccia di blu e una di giallo, se fermi per un attimo l’immagine.
Lo sa bene Luca Previtali, che viene dall’aver montato tra le altre cose i due capitoli dei Diari di Angela di Gianikian; e lo sa bene anche Francesco Clerici, la cui intera produzione è votata a ragionare delle pause, delle capsule di tempo.

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Quando l’artista 80enne Janet Pavone ritorna in Nicaragua dalla sua Brighton a quasi 25 anni dal periodo in cui, insieme ad un incredibile gruppo di creativi, aveva realizzato una serie di stupefacenti murales legati alla rivoluzione sandinista, sembra proprio voler seguire le scie di colore delle sue opere, sia quelle da rinfrescare con delle mani di vernice per un restauro ufficiale, che quelle ben meno vistose di alcuni interventi in interni oggi nascosti da impalcature, o scoloriti dall’incuria. Una delle riflessioni più importanti Janet la fa a colloquio con l’artista Sergio Michilini, e riguarda la consapevolezza di quali spettatori si sarebbero trovati al cospetto di queste imponenti opere murarie, pensate per i passanti o per chi le avrebbe viste dall’abitacolo della propria auto. Ecco, Clerici e Previtali pensano forse ad una tipologia simile di spettatore in movimento, esattamente come la compagnia girovaga e instancabile del film (Janet, il figlio Jon, il sodale Dan Hopewell, e lo stesso Francesco operatore): uno sguardo che viene costantemente traghettato tra repertorio da epoche diverse, home movies e riprese dei restauri precedenti dei murales, le riflessioni della donna, le sue rievocazioni di una vita di affetti, arte e militanza, e i suoi incontri con i protagonisti dell’epoca, o con chi era solo bambino ai tempi dei suoi laboratori di muralismo.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe: anche se ai due autori non piace dire che si tratti di un film politico (Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo), perché non “ragiona” apertamente sul Nicaragua e l’eredità del sandinismo oggi, La Paz del futuro è in ogni caso un’opera cristallinamente politica, anche al di là del discorso cruciale sull’arte pubblica che abita diverse delle conversazioni che raccoglie. E lo è per la maniera con cui dialoga con le immagini private e istituzionali (i murales erano sovvenzionati da governo ed esercito), e rovescia il senso apparente e la direzione delle une e delle altre. Per come va alla ricerca esattamente di quel momento inafferrabile, di quell’istante in cui, come nella favola del blu e del giallo, tutti i colori per un solo secondo si sovrappongono e ogni cosa è insieme rivoluzione, amore, vita, comunità, di quell’abbraccio verde che magari non tornerà ma è sempre lì, come il bel lago dalla perfetta corona d’erba che si è visto oltre la pianura salina cotta dal sole, di cui parla Hemingway in Vero all’alba. La mattina abbiamo attraversato quella pianura a piedi e sappiamo che il lago non esiste. Ma ora è là, assolutamente vero, bello e credibile.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3.33 (6 voti)
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