La programmazione di Fuori Orario dal 25 febbraio al 2 marzo

Cinema italiano anni ’50 con De Santis e Coletti, lo spazio sognato di Elia Suleiman e la materia del colore con il muto Kinemacolor, Il colore del melograno e l mistero di Oberwald. Da stanotte.

--------------------------------------------------------------
CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

--------------------------------------------------------------

Domenica 25 febbraio dalle 2.00 alle 6.00

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Fuori Orario cose (mai) viste

di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

A CAVALLO DEI ’50 – nel boom dipinto di boom (3)

a cura di Paolo Luciani

Per alcune notti di Fuori Orario presentiamo coppie di film che siano in grado di documentare i cambiamenti in atto nella società italiana tra il 1948 (anno della sconfitta elettorale delle sinistre) e tutti gli anni ’50, caratterizzati dal centrismo democristiano, ma, anche e soprattutto, da una ricostruzione post-bellica accelerata che conduce al boom economico ed al suo rapido sfiorirsi.

Sono gli anni in cui si stratifica la realtà italiana, quella di “un paese mancato”; non basteranno le lotte sindacali e sociali del decennio successivo, insieme al raggiungimento di poche, ma importanti riforme sui diritti di tutti, ad allineare il paese su standard di modernità, ancora oggi irraggiungibili.

Cinematograficamente siamo tra la crisi del neorealismo e l’esordio di grandi personalità (Antonioni, Fellini) insieme al persistere e al mischiarsi di nuove figure professionali (attori, registi, sceneggiatori, quadri tecnici) con quelle ancora provenienti dalle esperienze del cinema del ventennio. Di fatto, dal dopoguerra alla metà dei ’50, prende forma “il pubblico cinematografico italiano”, costruito sul consumo di una produzione nazionale ancora molto diversificata. Resistono tutti i filoni ed i generi: il neorealismo popolare come quello rosa, il film d’avventura e il film opera, il cinema comico attoriale come quello d’autore. Ma abbiamo anche la nascita della commedia all’italiana e l’inizio del peplum, la presenza hollywoodiana a Cinecittà e quello che sarà il cinema dei grandi produttori italiani degli anni ’60, insieme a realtà come “il cinema napoletano”. Su tutto, poi, si stende una cappa censoria che non risparmia nulla. Le produzioni devono combattere contro l’invasione del prodotto hollywoodiano, facendo ancora ricorso a un mercato di esercizio che vede durare anni lo sfruttamento di un film, con stadi diversi di programmazione, in grado di raggiungere gli strati più profondi del paese: quello che farà la televisione, da lì a pochi anni.  Insieme al cinema e alla radio si affermano nuovi media, non solo la TV, ma la pubblicità, la stampa di partito, il fotoromanzo, le riviste di costume illustrate. Dopo il voto alle donne abbiamo una scolarizzazione finalmente di massa. Quella che viene chiamata una mutazione antropologica del paese si manifesta anche con i bisogni che moltiplicano le occasioni del nuovo consumismo, come di una normale, anche se caotica, evoluzione dei costumi. L’auto per tutti, le vacanze di massa, la moda e il nuovo divismo femminile, i concorsi e le manifestazioni, siano esse canore, di bellezza, letterarie, d’arte. Nella consapevolezza comune emergono e si differenziano economicamente e culturalmente composizioni diverse della società, con nuove problematiche anche esistenziali. Ed il nostro cinema è presente e dà conto di questi mutamenti, con alcune costanti che si possono far risalire alle radici profonde della nostra storia: amor di patria -spesso vissuto come a fare ammenda di non encomiabili responsabilità storiche più o meno recenti- una tendenza costante al tragico e al comico, dove far annacquare tendenze inespresse alla rivolta e alla consapevolezza di sé. Ma, soprattutto, la costante narrativa con cui il nostro cinema sembra fare i conti, è condizione familiare, meglio quella della donna, costretta e raccontata in un’emancipazione troppo lenta, sia essa madre, lavoratrice o “donna libera”.                                                                                                 

UN MARITO PER ANNA ZACCHEO

(Italia, 1953, b/n, dur., 100’)

Regia: Giuseppe De Santis

Con: Silvana Pampanini, Massimo  Girotti, Amedeo Nazzari, Umberto Spadaro, Carletto Sposito, Enzo Maggio, Monica Clay

Anna Zaccheo, giovane e bellissima, è fidanzata con un marinaio. Questo si assenta per lunghi mesi per servizio, durante la sua assenza Anna  cede alle lusinghe di un maturo pubblicitario, che la seduce con l’inganno di renderla famosa. Quando il suo fidanzato torna e viene a sapere dell’accaduto, lascia Anna, non ritenendola più degna di essere sua moglie…

“Fin da subito il film prende di petto una specie di sotto-sistema dei media di cui esso fa parte: le canoni napoletane (ed il cinema ad esse collegato), di ci forse per la prima volta vengono viste quasi didascalicamente le parentele con la sceneggiata…le dinamiche dei personaggi della sceneggiata sono quasi le categorie con ci Anna Zaccheo vede la realtà, e in parte quelle con cui De Santis costruisce le disavventure di lei. La stessa protagonista attraversa una serie di incarnazioni all’interno di questo sistema maschera in un cinema, poi fotomodella, fino a troneggiare discinta e svergognata su dei cartelloni con le gambe in mostra”. (E. Morreale, COSI’ PIANGEVANO, Donzelli, 2023)

MISS ITALIA

(Italia, 1950, b/n, dur., 87’)

Regia: Duilio Coletti

Con: Gina Lollobrigida, Richard Ney, Constance Dowling, Luisa Rossi, Carlo Campanini, Mino Doro, Antonio Juva, Odoardo Spadaro

Il giornalista Massimo Lega decide di fare un servizio – inchiesta sul concorso di Miss Italia; si troverà di fronte a storie vere fatte di sincere aspirazioni ad una vita migliore, ma anche a ricatti, sopraffazioni e un inaspettato finale giallo…

Il film, che conta tra le interpreti Gina  Lollobrigida, terza classificata nella edizione 1949 del concorso, alle spalle di Gianna Maria Canale e Lucia Bosè, testimonia in maniera più che esemplare l’enorme risonanza che appuntamenti come quello di Miss Italia, insieme ad un fiorire di altre occasioni pubbliche, riscotevano verso un paese che cercava anche in questo modo di prendere le distanze da un presente ancora fatto di macerie e lutti della guerra.

 

Venerdì 1 marzo dalle 1.40 alle 6.00

SENZA (S)CAMPO. LO SPAZIO SOGNATO DI ELIA SULEIMAN 

a cura di Fulvio Baglivi e Roberto Turigliatto

IL PARADISO PROBABILMENTE                      

(It Must Be Heaven, Francia-Canada, 2019, col., 98’, v.o. sott., it.)

Regia: Elia Suleiman

Con: Elia Suleiman, Tarik Kopty, Kareem Ghneim, Gael Garcia Bernal

Vincitore del Premio Speciale della giuria al Festival di Cannes, l’ultimo film di Elia Suleiman lo vede ancora protagonista davanti e dietro la macchina da presa. Il regista palestinese interpreta se stesso, un cineasta stanco di vivere nella claustrofobica Palestina occupata da decenni che intraprende un viaggio alla ricerca di un posto migliore. Ma da Parigi a New York, il silenzioso Elia, trova un mondo fatto di checkpoint e divieti, di frontiere e limiti in cui la dimensione surreale è amplificata dalla presenza asfittica del protagonista, che nelle diverse situazioni ricorda ora Buster Keaton ora Jacques Tati.

“Qualcuno, scommettiamo, obietterà una certa superficialità delle trovate di Suleiman. Ma il fatto è che il suo discorso si concentra proprio sulla superficialità della percezione comune, sull’equivoco di ciò che si dà a vedere, sull’illusione della chiarezza, della trasparenza. E della libertà.  Suleiman osserva, con la sua maschera muta e leggermente frastornata. Ma c’è differenza tra sguardo e sguardo. Bisognerebbe ripeterlo, oggi forse più che mai. E quello di Suleiman è uno sguardo attivo. Come quello di Tati (e alla Tati è anche tutto lo straordinario lavoro sull’amplificazione e la sottolineatura dei suoni). Come quello di Herzog e di Ferrara. È un occhio che “interviene” sulla neutralità apparente del dato reale e la trasforma, la trasfigura. Ma solo per arrivare al cuore del senso, all’angolo nascosto o all’invisibile più scoperto e indifferente, quello che abbiamo sotto al naso e non vogliamo vedere.” [Aldo Spiniello, Sentieri Selvaggi]

IL TEMPO CHE CI RIMANE

(The Time That Remains, Regno Unito, Italia, Belgio, Francia, 2009, col., dur., 105’, v. o. araba, ebraico, inglese, con sott., it.)

Regia: Elia Suleiman

Con: Elia Suleiman, Alik Suleiman, Saleh Bakri, Samar Qudha Tanus

Il film è la cronaca di una famiglia palestinese residente a Nazareth lungo un arco temporale    che va dal 1948 ai giorni nostri. Elia Suleiman basa il suo racconto sui contenuti dei diari di suo padre e sui suoi ricordi personali, facendo di fatto un ritratto della vita quotidiana dei palestinesi che sono rimasti nella loro patria dopo la guerra del 1948 e la creazione dello stato d’Israele.

“I miei film si ispirano alla mia vita quotidiana. Quando vivi in una zona sensibile come il mio paese, la politica fa semplicemente parte della vita. Si dà il caso che la Palestina subisca un eccesso di esposizione mediatica, col conseguente risultato di lasciare campo libero agli ideologi sia a sinistra, sia a destra. Ho sentito che la mia sfida era quella di sottrarmi a questo approccio semplicistico e di fare film in cui non ci fosse nessuna lezione di storia da impartire. Mi sono focalizzato su momenti di intimità familiare, con la speranza di non ottenere altro che il piacere del pubblico e una certa verità nel modo di girare. Se raggiunge questo scopo, il film diventa universale e il mondo stesso diventa Palestina. (…)   Alcuni degli eventi rappresentati hanno avuto luogo in modo brutale e caotico. Io stesso sono stato segnato per sempre da ricordi di questo periodo. Volevo però presentare questo caos come una danza in cui la violenza è suggerita sul piano emozionale ma non esibita. La sfida era quella di tradurre la violenza in un linguaggio filmico alieno da ogni sensazionalismo. La violenza di quel periodo è stata estrema, ma il mio obiettivo era di alludervi, non di rappresentarla. (…)  Trovo che il silenzio sia molto cinematografico. Il silenzio è una cosa meravigliosamente sovversiva. Tutti i governi lo odiano perché è un’arma di resistenza. Quando leggi una poesia, per esempio, il respiro gioca un ruolo fondamentale. Molte persone si sentono intimidite dal silenzio, perché le destabilizza, li spossessa della loro identità. Il silenzio ti fa mettere in discussione le cose”. (Elia Suleiman)

 

Sabato 2 marzo  dalle 1.10 alle 7.00

MATERIA E COLORE. TRASFERIMENTI DI MODULAZIONE  

a cura di Fulvio Baglivi, Roberto Turigliatto

KINEMACOLOR        PRIMA VISIONE TV

(1908-1912, col, durata: 68’44”)

La Cineteca di Bologna conserva la più ampia collezione di film realizzati tra il 1908 e il 1912 con il sistema Kinemacolor, procedimento di colorazione bicroma che per primo tentò di riprodurre i ‘colori naturali’ al cinema. Dopo il restauro digitale, alcuni di questi rari film, prodotti da Charles Urban e Luca Comerio, sono per la prima volta disponibili.  Dopo “Grand Tour italiano”, già presentato da Fuori Orario, questo nuova collezione, curata per la Cineteca di Bologna da Mariann Lewinski e Luke McKernan, conduce in un nuovo magico viaggio: testimonianze uniche di storia del primo Novecento si fondono con momenti di pura bellezza, e riportano il passato alla vita in un tripudio di colori. “Il Kinemacolor fu la meraviglia della sua epoca. Tra il 1909 e il 1914 il primo processo riuscito di film a colori naturali conquistò le platee di tutto il mondo. Questa collezione ci apre gli occhi su una parte della storia del cinema estremamente importante ma finora perduta” (Luke McKernan)

Il programma comprende:

Kinemacolor Urban
The Harvest (1908); Fording the River (1910); Lake Garda, Italy (1910); Feeding Poultry at Prowse Jones Farm (1911); A Run with the Exmoor Staghounds (1911); Nubia, Wadi Halfa and the Second Cataract (1911); With Our King and Queen Through India: The Pageant Procession (1912)1908

Kinemacolor Comerio
La vita dei nostri Ascari eritrei in Libia (1912); Plotoni nuotatori della 3a Divisione Cavalleria (1912); L’inaugurazione del campanile di San Marco (1912); Le pittoresche cascate d’Italia (c.1912)

SAYAT NOVA                    

(Il colore del melograno, URSS-Armenia, 1966, col., dur., 77′, v. o. sott., .it.)

Regia: Sergej Paradžanov

Con: Sofiko Čiaureli (il Poeta da giovane/l’amata del Poeta/la monaca in pizzo bianco, l’Angelo della Resurrezione/il mimo), Melkon Alekjan (il Poeta da bambino), Vilen Galustjan (il Poeta monaco), Georgij Gegečkori (il Poeta anziano)

Il capolavoro di Sergej Paradžanov, è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna e dal Film Foundation, a partire dalla copia di distribuzione armena proiettata nell’ottobre del 1969 a Erevan con integrazioni dalla copia sovietica.

Una fantasia poetica su Sayat Nova (ca. 1712-1795), trovatore armeno (ashugh) che componeva i suoi versi in lingua armena, azera e georgiana. A un tempo solenne e sensuale, il film celebra lo spirito creativo transcaucasico attraverso una successione di dipinti, pantomime, oggetti di folklore e quadri allegorici in un’atmosfera autenticamente armena, dove il colore ha un’importanza primaria. L’estetica radicale del film ha ispirato registi quali Jean-Luc Godard e Mohsen Makhmalbaf.  Paradžanov aveva strutturato la sceneggiatura originale in una serie di “miniature” che dovevano evocare i principi pittorici e narrativi dell’arte armena e persiana.

“Guardare Sayat Nova, è come aprire una porta ed entrare in un’altra dimensione dove il tempo si è fermato e la bellezza si manifesta senza costrizioni. (…) I tableaux cinematografici di Paradžanov sembrano intagliati nel legno o nella pietra e i colori paiono essersi materializzati naturalmente dalle immagini nel corso dei secoli”. (Martin Scorsese, dal catalogo di Cinema Ritrovato, 2014)

IL MISTERO DI OBERWALD

(Italia, 1981, col., dur., 123′)

Regia: Michelangelo Antonioni;

Con: Monica Vitti, Franco Branciaroli, Luigi Diberti, Elisabetta Pozzi, Paolo Bonacelli, Amad Saha Alan

Dal dramma di Jean Cocteau L’aquila a due teste, già portata sullo schermo dal suo autore nel 1947. Nell’Europa Centrale di fine Ottocento un poeta rivoluzionario, si reca al castello di Oberwald intenzionato ad uccidere la regina, vedova di un re a sua volta morto in un attentato. Ma la regina vede nel poeta un sosia del re morto, e il poeta vede nella regina una donna prigioniera del suo potere.  Tra i due nasce l’amore. Antonioni si serve della pièce per volgerla a stilizzazione favolistica e sperimentare le nuove possibilità elettroniche del video, soprattutto nella trasformazione e nella ricreazione dei colori. «Per quanto mi riguarda, penso di avere appena incominciato a scalfire la gamma ricchissima di possibilità che l’elettronica offre. Altri potranno fare di più. Una cosa posso dire e cioè che il nastro magnetico ha tutte le carte in regola per sostituire la tradizionale pellicola» (Antonioni).

RUSHES DI OTELLO

(Italia, 1979, col., sonoro e muto, video, dur., 180’ )

Regia, scene, costumi: Carmelo Bene

Interpreti: Carmelo Bene, Cosimo Cinieri, Michela Martini, Rossella Bolmida, Cesare

Dell’Aguzzo

La storia dell’Otello televisivo di Carmelo Bene è una storia travagliata, fatta di annunci, scomparse e successive apparizioni che si susseguono dal 1979, quando Carmelo Bene gira per la Rai una versione del suo Otello o la deficienza della donna da William Shakespeare. Le riprese avvennero nello Studio 1 di Torino, allestito con strumenti all’avanguardia che permettessero la sperimentazione in video, con quattro telecamere separate. Carmelo Bene, che pochi mesi prima aveva allestito lo stesso spettacolo in teatro, sa cosa cerca attraverso la televisione, come aveva raccontato a Italo Moscati su Cineforum nel 1978: “La televisione è uno strumento che consente di scavare nel paesaggio umano. Che cosa voglio dire? Il paesaggio umano è costituito dalla presenza degli attori che non sono lontani come sulla scena ma sono una realtà viva sulla quale indagare minuziosamente. La telecamera diventa una specie di occhio esplorativo che coglie tutto, anche i più piccoli dettagli, e offre la possibilità di raccontare potendo selezionare un materiale enorme.” Tra questi “dettagli” il colore è protagonista assoluto, già dapprima di tutto il cinema di Bene ma in questo caso la ricerca cromatica è ancora più approfondita per via delle nuove tecnologie video.

 

 

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array