Il mistero di Oberwald, di Michelangelo Antonioni

A lungo considerato come il passo falso del regista, anticipa negli anni ’80 la rivoluzione digitale. Un film pioniere, che proietta il cinema verso nuovi orizzonti e scenari estetici. Su RaiPlay

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Nel corso della sua lunga carriera, non c’è stato film di Antonioni più bistrattato, incompreso e vituperato da parte della critica internazionale de Il mistero di Oberwald, costretto a vivere nell’immaginario collettivo all’ombra delle grandi opere del celebre cineasta. A più di quarant’anni di distanza, quel che al tempo è stato recepito alla stregua di un mero esercizio di stile, come un eccesso di sperimentazione audiovisiva che sacrifica la profondità di racconto sull’altare del pionierismo estetico, diviene oggi il motivo di interesse primario del film, ciò che lo consegna alla storia. Prima ancora che il digitale, nella seconda metà degli anni Novanta, venisse individuato come strumento prediletto per l’innovazione cinematografica, meritevole di condurre l’immagine (e le narrazioni filmiche) verso nuovi orizzonti e metodologie di ricerca estetica, nel 1980 il regista ferrarese anticipa la “rivoluzione”, iscrivendo il racconto negli alternativi scenari infografici. Un’innovazione spiegabile non solo per l’incipiente evoluzione tecnologica – Il mistero di Oberwald è stato registrato con sistemi elettronici su nastro magnetico per poi essere riversato su pellicola – ma che assume rilievo se riletta alla luce del periodo in cui Antonioni le dà corpo. Scaduto il contratto che lo lega all’influente produttore Carlo Ponti – per cui realizza tre lungometraggi, Blow-Up, Zabriskie Point e Professione: reporter – e superate le controversie dell’esperimento documentaristico Chung Kuo, Cina, il cineasta individua il video come materia per il rinnovamento creativo, un “salto nel vuoto” in cui dirigere la propria poetica.

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Ne Il mistero di Oberwald la manipolazione dell’immagine è, di fatto, il magma da cui si origina qualsiasi scelta registica. Nel raccontare la tragica storia dell’innominata regina – interpretata da Monica Vitti, alla quinta e ultima collaborazione con il cineasta, dopo i fasti raggiunti con la trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura, La notte, L’eclisse, oltre a Deserto rosso) – Antonioni si serve della totalità dello spettro cromatico a cui la manipolazione video può tendere. La configurazione dell’immagine diviene, infatti, il luogo dell’antirealismo iconico: a lampi di luce verdastra, si sostituiscono improvvisi bagliori magenta, che rapidamente confluiscono in improbabili visioni di azzurro; inquadrature girate in sovraesposizione luminosa (tipiche della pellicola) si alternano organicamente alla desaturazione cromatica del digitale, in un’assenza totale di referenza e adesione alla realtà. A materializzarsi è una variazione allucinante e stroboscopica di colori dal sorprendente impatto (audio)visivo. Un approccio all’immagine estremo, inizialmente frainteso proprio in virtù dell’assenza di precedenti che ne potessero svelare l’istanza comunicativa di fondo. Ma per quanto Il mistero di Oberwald sotto il profilo estetico non abbia omologhi nella filmografia di Antonioni, l’intreccio, di fatto, rievoca l’impostazione narrativa di molte sue opere. Analogamente a La notte o a L’avventura, anche qui il racconto si struttura secondo la formula del “gioco a due”, con il botta e risposta dialogico tra i due protagonisti a dominare le scene, e a consentire loro di mettere in comune le rispettive condizioni alienate. Un legame comunicativo intenso, che spinge tanto la regina in lutto quanto il giovane poeta squattrinato a ricercare una via per il superamento dei rispettivi drammi esistenziali, i cui esiti confluiranno (incontrovertibilmente) in un epilogo tragico e irreversibile, in piena continuità con lo spirito di molti finali antonioniani. Se ne L’avventura Claudia e Sandro accettano insieme la precarietà della loro esistenza, anche qui i percorsi dei due protagonisti culminano tragicamente nello stesso spazio, in un’infelice comunione di destini dal fatalismo inevitabile.

Nonostante Il mistero di Oberwald continui ad occupare un posto subalterno nella filmografia del regista ferrarese, sia per alcuni passi falsi sotto il profilo narrativo – la porzione di racconto relativa alla cospirazione politica lascia profondamente a desiderare – sia per l’incomprensione generata dalla sperimentazione estetica, l’importanza culturale che assume nel tempo (non solo per il cinema digitale) resta indelebile. La desaturazione cromatica tendente al seppia de L’elemento del crimine (il debutto di Lars Von Trier) ne evidenzia un chiaro debito estetico, così come è ravvisabile l’influenza esercitata su Wong Kar-wai, che ha mutuato dal rapporto di coppia presente nel film gli elementi per definire le dinamiche relazionali dei suoi personaggi (soprattutto in Angeli perduti). Una rilevanza culturale che da tempo viene sottovalutata e che meriterebbe finalmente di essere riconosciuta.

Regia: Michelangelo Antonioni
Interpreti: Monica Vitti, Franco Branciaroli, Paolo Bonacelli, Elisabetta Pozzi, Luigi Diberti, Carla Buzzanca
Durata: 129′
Origine: Italia, Germania Ovest, 1980
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
Sending
Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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