Voice, di Yukiko Mishima

Evita le incongruenze in cui rischiano di inabissarsi i film ad episodi, fino a delineare dei ritratti intensi ed evocativi di anime fragili nell’inesorabilità della solitudine. Dal Far East 2024

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Per Yukiko Mishima contano solo i micro-drammi quotidiani della vita, le inflessioni (emotive, esistenziali, e anche narrative) che prendono corpo nelle maglie di una routine apparentemente immobile, placida, dove l’andamento statico del tempo e dello spazio si sovrappone all’universo emozionale di personaggi completamente assorti nelle loro fragilità. Quasi fossero bloccati in un loop traumatico perenne, che non lascia adito ad alcuna fantasia di vitalità, proprio perché non sembra presentare – almeno ad un primo sguardo – una conclusione né una possibile risoluzione. E nel caso di un film come Voice, contraddistinto da tre segmenti solo tematicamente (e quindi non narrativamente) interconnessi, a filtrare tali questioni interviene l’avvento del lutto: e la necessità, da parte dei personaggi che lo esperiscono, di non cedere al peso di quella sofferenza che rischia, inesorabilmente, di schiacciarli.

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Malgrado le tre storie di cui si compone questo trittico non abbiano in comune alcuna figura né tanto meno l’intreccio, la sensazione di unità e coesione su cui Voice costruisce il proprio disegno è data sì dalla condivisione dello stesso tema, ma soprattutto dalla naturalezza con cui tali segmenti veicolano le tematiche di riferimento secondo una medesima strategia drammaturgica. Per quanto i tre protagonisti appaiono separati da differenze lapalissiane, sia anagrafiche che puramente identitarie, ciò che li pone in continuità l’uno con l’altro è proprio la natura “omologa” dei conflitti che stanno attraversando, e la direzione univoca verso cui la cineasta dirige i loro processi di risoluzione traumatica. Da questa prospettiva, il padre transessuale (Maki Carrousel) incapace di metabolizzare la perdita della primogenita, il pastore di mezza età (l’iconico Shō Aikawa) impegnato a ricucire il rapporto con la figlia, e la giovane donna soffocata dalle conseguenze di un abuso infantile (interpretata dalla straordinaria Atsuko Maeda di To the Ends of the Earth) si trovano tutti nella medesima condizione esistenziale, nonostante le loro storie – sia di vita, che “narrative” – seguano dei percorsi singolari ed esclusivi.

Ecco allora che Mishima, per evitare di incuneare Voice nelle incongruenze (comunque presenti) in cui rischiano solitamente di inabissarsi i film ad episodi, parte da una condivisione della matrice traumatica, per offrire una connotazione materica al conflitto, che assume così non solo delle fattezze fisiche e “tattili” con cui i personaggi (e gli spettatori) possono interfacciarsi, ma appare anche ripetuta nel tempo, in modo da attraversare contiguamente, alla pari di un fil rouge, i tre segmenti di cui si compone la narrazione. È così, allora, che nelle prime due frazioni del film, il mare diventa il simbolo del trauma, l’elemento scenografico – e simbolico – che rammenta ai protagonisti la natura del loro dolore, permettendogli, grazie alla sua statica e immanente presenza (visualizzata in campo nel segmento iniziale, e declinata nell’orizzonte sonoro nell’episodio successivo) di confrontarsi con la materializzazione stessa della sofferenza che li affligge. E di offrire, nel contempo, un elemento fisico che consenta al racconto di esibire un radicale scontro di forze; e a chi guarda di investire emotivamente in un conflitto che appare sempre più credibile e coeso.

Strategia, questa appena delineata, che ritorna nell’atto finale – il più esteso e brillante di Voice – sotto forma di immagine disegnata, con il ritratto del volto della giovane Reiko che porta alla luce, agli occhi della donna, la matrice stessa del suo dissidio: ovvero la difficoltà di percepire la “paternità” del suo corpo. E seppure i due segmenti iniziali appaiano decisamente più piatti e meno evocativi rispetto alla frazione conclusiva, Mishima canalizza nel terzo episodio tutte le istanze migliori del suo cinema: fino a trovare nella complicità tra due persone emotivamente distanti, la ricetta con cui eviscerare l’intimità di anime così impietosamente solitarie.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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