Life Is Not a Competition, But I’m Winning, di Julia Fuhr Mann
Un pamphlet transgender che centrifuga archivio, fiction e comunicazione pubblicitaria con l’obiettivo di riscrivere il passato e abbattere gli steccati. VENEZIA80. Settimana della critica.
Superare le classificazioni tradizionali. È decisamente questo l’input poetico e politico dell’opera prima della tedesca Julia Fuhr Mann, filmaker queer-femminista classe 1987. “Un genere separato dall’altro per il volume di fama” viene, infatti, detto all’inizio ponendo le basi per quello che è lo slogan del film: se la Storia è scritta dai vincitori, che ne è di coloro a cui non è stato mai permesso di partecipare alla gara? Questa docu-fiction prova a presentarcene alcuni, anzi il suo espediente “narrativo” è proprio quello di dare voce e immagine a un gruppo di atleti transgender che, impossibilitati a partecipare alle competizioni ufficiali, si riunisce in due degli stadi più importanti nella storia delle Olimpiadi: l’Olimpico di Atene, “costruito esclusivamente per creare eroi maschi”, e l’Olympiastadon di Berlino, realizzato dai nazisti per le Olimpiadi del 1936. Raccontano le loro esperienze personali e le rinunce a cui sono state costrette per i regolamenti del Sistema, ma soprattutto riattraversano il tempo storico dello sport, entrando ed uscendo dal materiale di repertorio un po’ come Woody Allen in Zelig.
Eccoci allora davanti agli avvenimenti più discriminanti o a quegli atleti del passato che hanno cambiato la storia o che da questa sono stati cancellati. Come Lina Radke, la vincitrice alle Olimpiadi del 1928 sugli 800 metri, che vide il suo trionfo oscurato negli anni a venire dalle prevenute opinioni maschili sulla capacità delle donne di affrontare gare così estreme, al punto da proibire la competizione per 32 anni nello sport femminile. O come Stella Walsh, la velocista che negli anni ’30 battè ogni record per poi essere in buona parte dimenticata in seguito all’autopsia post-mortem che ne rivelò l’assenza di utero.
Per parte sua, in aperta provocazione e contaminazione concettuale, Julia Fuhr Mann mescola i generi (e le forme di linguaggio) dell’audiovisivo: l’archivio novecentesco in bianco e nero e l’intervista, il backstage sportivo e il messaggio pubblicitario. Del resto lo abbiamo sempre saputo, dall’ “estetica Leni Riefenstahl” all’ “estetica Nike” bastano pochi, ma cruciali, passi. Life Is Not a Competition, But I’m Winning li compie seguendo in tutto e per tutto i dettami militanti del manifesto programmatico.