#Locarno68 – Ben Rivers, la ricerca contaminata

Forse più di una mezza delusione, come se lo sguarso dell’artista e videomakers londinese si fosse inquinato affrontando la finzione senza però mettersi in discussione

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Dal concorso Internazionale, uno dei film più attesi si è rivelato più di una mezza delusione. Come se il suo sguardo trasfigurato, che aveva colpito in corti come Ah, Liberty!, HouseThe Coming Race e This is My Land si fosse come improvvisamente contaminato. Non con qualche compromesso, ma con un’insistenza accumulativa dove si esibisce la sua sperimentazione sull’immagine e sul suono, la sua volontaria distanza herzoghiana dove l’avventura è cinema ed è vita ma qui, in questo suo film dal titolo lunghissimo, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, tutti gli elementi che dovevano mescolarsi – la terra del Marocco, la materia e la grana della pellicola, i rumori e i microfoni del set – sono come rigidamente separati. Come se Rivers volesse filmare il suo work in progress mentre sta girando. Una telecamera con l’illusione di averne due. Dove c’è un regista che, tra l’aspra regione montana dell’Atlante e il deserto, lascia il set e da manipolatoredi uno sguardo diventa egli stesso preda di quello altrui.

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C’è non solo uno spazio ma anche un set vampirizzato, quello del set di Oliver Luxe. E un racconto, quello di Paul Bowles, che invece fa rimpiangere l’abbagliante deserto di Bertolucci. Le macchine che corrono nel deserto all’inizio sembravano un bel segno di continuità. Come se la sperimentazione del primo Lynch e si fosse mescolato nelle immagini di Strada a doppia corsia di Hellman. Poi un set, le ripetizioni di una caduta dall’alto di uno stunt che precipita sugli scatoloni. E poi la finzione: l’aggressione, un orecchio tagliato, l’uomo-meccanico (chiamato anche ‘Re del ferro dai suoi aguzzini) che danza con un costume di lattine, diventa l’elemento più narrativo dove lo sguardo di Rivers si lascia trasportare in modo compiaciuto. La segmentazione non è più sull’immagine ma sul corpo. Una danza ripetuta dove il suono del metallo attira e poi scompare lentamente, con la traccia di follia di un fuori-campo decisamente ambiguo, forse vittima della durata, forse di uno sguardo che si è messo stranamente in gioco cercando qualcos’altro ma con il sospetto di una presunzione con la quale non si è invece messo in discussione.

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