#Locarno69 – O Ornitólogo, di João Pedro Rodrigues
Parabola sacra e profana che fonde autobiografia e immaginario queer in un viaggio nella wilderness più oscura e profonda. Quasi troppo per un solo film ma non si può non restarne sedotti.
Era uno dei titoli più attesi di questa 69a edizione, O Ornitólogo, di João Pedro Rodrigues. Il film che, dopo l’esordio di O Fantasma e Odete, più il detour di A Última Vez Que Vi Macau, in coppia con João Rui Guerra da Mata (menzione speciale proprio qui a Locarno nel 2012), avrebbe finalmente chiarito il mistero sul cinema di Rodrigues.
Invece questa parabola sacra e profana, questo percorso attorno alla figura di Sant’Antonio reinterpretata in chiave autobiografica e allo stesso tempo viaggio nella wilderness più oscura e profonda, perpetua il mistero e lo infittisce.
E dopo i primi di attimi di disorientamento, di fronte alla metamorfosi continua di un film che non fa che mutare pelle, capiamo che è proprio per la capacità di disattendere le aspettative e sedurre visivamente che si ama (o meno) il cinema dell’autore portoghese.
Questa metamorfosi, questo percorso verso la sacralità, si compie attraverso l’abbandono, prima casuale poi ricercato, di ogni forma di civilizzazione, con continui detour nella natura più selvaggia e nella notte, popolata di creature bizzarre, elementi di una mitologia assolutamente libera e personale, densa di paganesimo bucolico (come l’apparizione del pastore Jesus, intento a suggere il latte di una delle sue capre) o estasi sfrenata.
Rodrigues ripercorre la vita del santo adattandone gli episodi al suo immaginario queer colto e cerebrale, arricchito da visioni cinefile che, soprattutto nella prima parte, con l’immersione in una natura ostile rappresentata dai controcampi degli uccelli sull’ornitologo fino alla follia delle giovani cinesi cristiane, danno l’impressione di assistere a un nuovo Deliverance.
Quasi troppo per un solo film. Ma quella di O Ornitólogo è una lucida follia da cui non si può fare a meno di essere sedotti.