Maria, di Jessica Palud

L’uso riduttivo di un’impostazione di genere, toglie lucidità al racconto e condanna la storia ad un consumo contemporaneo di facile consenso, da acchiappalike. CANNES77. Cannes Première.

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Partendo dal libro scritto da Vanessa Scheneider, My cousin Maria Schneider: A memoir, Jessica Palud cura un adattamento ideologico e piuttosto sbilanciato per puntare il dito contro Bernardo Bertolucci, condannato con nessun diritto di replica. Consapevole di sollevare l’ennesimo vespaio, il film riapre un capitolo sviscerato sotto mille punti di vista, di cui le interpretazioni, i racconti, le interviste sono tantissime, la famosa scena del burro di Ultimo tango a Parigi. In quel frangente, rimasto nei ricordi dell’attrice associato ad un’esperienza traumatica, ci sono la sorpresa di un copione cambiato dal regista senza avvertirla, il consenso di Brando, l’umiliazione e le lacrime vere versate per la vergogna.

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Una vita segnata da molto dolore, i problemi con la madre, il divorzio dei genitori, la tossicodipendenza da eroina, agenti senza scrupoli, come mostrato sullo schermo, eppure i punti di non ritorno secondo questa visione parziale ed interessata, sarebbero quella scena e quel film. Responsabile di aver segnato la carriera da attrice della Scheneider, che lamentava di ottenere dopo quel ruolo solo richieste per scene di nudo, felice di ricordare invece le collaborazioni con Antonioni per Professione: reporter o con Rivette per Merry-Go-Round, registi che pensava potessero lanciarla oltre la sua dimensione corporea di oggetto sessuale. Ottenuto il bollino del consenso, abusa di tematiche femministe, adoperando frasi ad effetto come “I film sono scritti da uomini per uomini” o “Gli uomini scopano in giro e poi tornano dalla moglie“, la regista si lascia sfuggire l’occasione, oltre a quella di avere uno sguardo obbiettivo, di gestire al meglio il cast, dalla protagonista Anamaria Vartolomei, scoperta nel film vincitore a sorpresa del Leone d’oro, L’evenement, e vista recentemente a Berlino nel film di Dumont, L’impero, vincitore del Gran premio della giuria, ed insieme a lei attori del calibro di Matt Dillon (Brando), Yvan Attal (Daniel Gélin) e Giuseppe Maggio (Bernardo Bertolucci).

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La storia ha un andamento cronologico, parte dal set dove incontrava segretamente il padre, e dove nasce il sogno di diventare un’attrice, poi l’effimera consacrazione seguita da cattivi incontri, dipendenze, uno stile di vita spericolato, la clinica per disintossicarsi e la solitudine alla quale sembra condannata. Questo tragitto trova dunque il suo apice nella ricostruzione della scena incriminata, uno spartiacque che le lascia dei segni addosso per la pressione mediatica seguita alla sua proiezione, la condanna al rogo e la censura, il rischio di carcere per Brando e Bertolucci, una posizione così delicata da lasciarla pressoché da sola ad affrontare la stampa. In tanto dolore getta una luce positiva la presenza di Noor, una aspirante giornalista che sta scrivendo una tesi e poi amante dell’attrice, ma anche questo è solo un abbaglio, l’ennesimo, conseguenza della volontà di manipolare il passato secondo la moda dei tempi. Un film che mai si interroga sulle varie responsabilità di un destino tragico, ma è interessato a dare risposte faziose a domande sbagliate, ad emettere giudizi, con una solidarietà tardiva e fuori tempo massimo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
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