L’empire, di Bruno Dumont

L’unico cinecomic europeo analogico possibile oggi che recupera lo spirito artigianale di Méliès. Un delirio visivo astratto di stupefacente inventiva e bellezza. BERLINALE74. Concorso.

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Tra cielo e terra. Il cinema di Dumont gioca con i cinecomics ma in realtà condivide temi che appartengono al suo cinema come la ricerca dell’origine e la fine del mondo, i misteri della vita, dell’amore e della morte. Poi in L’empire spinge sull’acceleratore con il genere tra pianeti antagonisti, cavalieri dell’Apocalisse, raggi laser. Lo sguardo volge verso un tempo astratto, ma il riferimento rimanda all’estetica della versione cinematografica di Flash Gordon, anche nei colori appena accennati, nella mutazione dei corpi in atto, nella lotta tra Bene e Male qui rappresentati rispettivamente da luoghi come una chiesa e un castello.

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Ambientato nella Côte d’Opale, nel Nord della Francia, L’empire mostra come cambia la vita di un tranquillo villaggio di pescatori  quando nasce un bambino così speciale che scatena una guerra tra due contrapposte forze extraterrestri.

Il cinema di Dumont vive su continui scarti: la rappresentazione naturalistica del luogo e la creazione di un universo soprannaturale, la duplicità dei personaggi che nascondono un’identità nascosta, la commistione tra attori più celebri (Camille Cottin nel ruolo della Regina e Fabrice Luchini in quello di Belzébuth che torna a lavorare con il regista dopo Ma Loute), e non professionisti; gran parte di loro provengono infatti dalla regione marittima di Boulonnais che si trova sulla costa della Manica. Per esempio il personaggio di Jony, il pescatore del villaggio, è interpretato da Brandon Vlieghe che è un meccanico di auto.

L’empire sembra partire dal deserto. C’è un campo lungo che potrebbe arrivare da Twentynine Palms ma poi muta nelle zone di Flandres e infine sul dittico tra Jeanne, l’enfance de Jeanne d’Arc e Jeanne. Nel set del cinema di Dumont tutto può succedere. Nel suo cinema migliore, di cui L’empire fa parte, diventa lo spazio dove ricreare il Mito del passato ma anche di mostrare una grande inventiva evidente per esempio, nel finale ancora tra cielo e terra, nella scena dell’auto che si ribalta o anche nella rappresentazione della magna nero che potrebbe arrivare direttamente dalla miniserie del regista Coincoin et les Z’inhumains. In più ci sono ancora quell’istinto primordiale, sia nella violenza (L’età inquieta) sia nella passione, come si vede nella passione romantica e selvaggia tra Jony e Jane.

Nella potenza dei primi piani dove ogni personaggio in ogni inquadratura è sempre un po’ diverso oppure lo è totalmente, Dumont costruisce un’altra imponente galleria visivo/pittorica. Non c’è manipolazione, come a volte si è pensato del suo cinema e la sua ineccepibile coerenza fa venire il sospetto che forse il suo cinema ha seguito quasi sempre una linea ben precisa ed è stata a volte la critica (anche la nostra) a non averlo capito perché ha visto come disturbante una fantasia pirotecnica dove i corpi si muovono prima di tutto per puro istinto: prima i movimenti, poi le espressioni del viso, poi il sesso, poi (forse) le lacrime.

L’empire ha una quantità impressionante di trovate e non si sa mai cosa può accadere nell’inquadratura successiva. Mostra le astronavi ma s’incanta a filmare il vento, utilizza la musica come possibile omaggio al melodramma hollywoodiano ma poi fa venire in mente soprattutto il modo con cui Pasolini usava Bach nei suoi film. Poi, in un delirio probabilmente più soggettivo, contamina Tinto Brass con Hayao Miyazaki, tra lo sguardo di Lyne verso gli agenti che arriva da Monella e la corsa di Rudy e Jane sullo sfondo del mare che potrebbe ingrossarsi e invadere la strada come Ponyo sulla scogliera. Forse se l’avesse girato negli Stati Uniti, sarebbe stato il suo Starship Troopers.

Non si sa perché il cinema di Dumont provoca reazioni così opposte, anzi antitetiche. O è detestabile, o come in L’empire è stupefacente. Il suo film è una continua invenzione, recupera l’antico spirito artigianale alla Méliès e filma i corpi oggi come pochissimi cineasti. Come si diceva, in questo rifiuto/coinvolgimento, odio/amore, probabilmente il problema non sono i suoi film ma il nostro approccio. Quando il suo cinema libera la testa, davvero si può viaggiare ancora tra cielo e terra.

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
3 (3 voti)
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