Non è sogno, di Giovanni Cioni

Nato da un laboratorio con i detenuti del carcere di Capanne, supportato dal PerSo e presentato in anteprima all’ultimo festival di Locarno, un immaginario “documentario d’evasione”

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Ma dov’è questo carcere di Capanne? Viene naturale chiederselo, dato che Cioni non lo mostra praticamente mai, se non in brevissimi frammenti, una sbarra, un angolo di cella… o in quel controcampo finale, dall’esterno, magicamente fuori. Eppure sappiamo che quegli uomini che ci sfilano davanti, che mimano le battute di Cosa sono le nuvole e di La vita è sogno, sono dei detenuti. Ce lo dicono e, se vogliono, ci raccontano le loro storie. Prima o poi. Il carcere non è un sogno. È la loro realtà. Non tutta, per fortuna, ma gran parte. E allora perché non lo vediamo? Per sfuggire all’immaginario carcerario socialmente imposto, direbbe Cioni. Ma forse anche perché l’idea del carcere già è implicita nella gabbia dell’inquadratura. Cioni ne è consapevole, per questo concede ai suoi detenuti la possibilità di quel telo verde, di quel green screen su cui virtualmente disporre e aprire infiniti altri spazi. È il colpo di genio, così semplice da essere disarmante. Eppure, non basta la trovata. Perché anche il trucco cinematografico risponde a delle regole, ha le sue leggi e i suoi obblighi di verità (o verosimiglianza). Bisogna scostarsi un po’ dalla parete verde, se no si fa ombra… Non riesco a togliermi dalla testa l’idea che anche il film fatto e finito possa essere una prigione, che stringe nella maglie della sua struttura, che obbliga nelle traiettorie di una storia, delle storie. Forse, perché il progetto di evasione sia completo, occorrerebbe fare a pezzi il film…

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E qui soccorre il fatto che il cinema di Giovanni Cioni non è mai troppo rigido e regolare. C’è sempre qualcosa che si confonde e si perde tra i piani, le stratificazioni, i meccanismi astratti, i ragionamenti a monte. Cè qualcosa che sfuma, come i contorni di una cosa ricordata, i dettagli di un racconto, lo sbiadirsi inesorabile di un’immagine. Anche qui, il riferimento a Pasolini e a Calderón de la Barca, il gioco del film da fare e da interpretare, ben presto vengono lasciati andare alla deriva. Rimangono allo stadio di appunti, quasi scarabocchiati. Il dispositivo non dispone né indispone. Non è una legge. È solo una traccia che serve a non perdere definitivamente la bussola. Un appiglio (“qual è quest’appiglio? qual è quest’appiglio?”)…

No, per fortuna Cioni non è un regista implacabile. Perciò i suoi film non sono celle di rigore. Lasciano sempre una porta aperta, uno spiraglio di entrata o una via di fuga. Se, per definizione, sono essi stessi un viaggio e una scoperta, devono ammettere in ogni caso la possibilità di un libero attraversamento. Sono tutto il contrario di un carcere. Anche quando la camera è fissa e sembra scrutare con fare inquisitorio, si avverte comunque la tensione di un fuoricampo, sia pure una voce che suggerisce, un telefono che squilla, qualcuno che sta dall’altra parte, nella possibilità di un controcampo, nella promessa di un’entrata e di una condivisione. Cioni, del resto, interviene, si mette in gioco e invade il piano. E ciò vuol dire, forse, che se davvero l’inquadratura è uno spazio di reclusione, una specie di esilio dal mondo e dalla realtà, allora è un affare che riguarda tutti, è il segno di una condizione che accomuna tutti. Per questo è possibile condividerla e va attraversata, bucata, squarciata, magari trasformata da un’altra immagine che appartiene a una diversa dimensione dello spazio e del tempo.

Il rigore di Cioni è umano. Per questo, mette al centro di tutto non la sentenza del film, ma la garanzia del processo. E concede ai suoi amici la libertà (vigilata?) di un laboratorio, in cui recitare o meno un personaggio, la libertà di raccontare o meno le proprie vite, di stare in campo o di uscire, di parlare oppure tacere e guardare. Di essere, insomma, fedeli a sé stessi, al di là della verità, di ciò che dicono o pensano, di come vengono visti e pensati. E al di là delle storie che segnano il passato e il presente. Perché, come su uno schermo verde o su una pagina bianca, si aprono sempre infiniti futuri. Anche per chi, come Domenico, non arriverà mai alla fine della pena. “Ma ora comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro…”. Forse è illusione, forse sogno. Ma anche questo è realtà. Così com’è realtà il dolore, l’anima, il sentimento, la speranza di un incontro, il set che apre, anche se per un istante, un carcere . È così, è così…

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