#RomaFF14 – Scary Stories to Tell in the Dark, di André Øvredal
Partendo dalla raccolta di storie macabre di Alvin Schwartz, Øvredal prende le mosse dal trauma adolescenziale per intraprendere un ragionamento sul Male storico. Produce Guillermo Del Toro
“Stories hurt. Stories heal”. Poco prima che la radio inizi a trasmettere Season of the Witch mentre Mill Valley, Pennsylvania, paesaggio immaginario della provincia americana qualunque, si prepara a festeggiare la notte di Halloween del 1968, Stella, la protagonista di Scary Stories to Tell in the Dark, ci dice che sono le storie, le storie che ci portiamo dentro, storie dalle quali non si esce mai indenni, a definire chi siamo. Ed è proprio Stella, adolescente cresciuta con addosso tutto il peso del senso di colpa per l’assenza della propria madre, a far da tessuto connettivo che tiene insieme le storie dell’omonima serie antologica per bambini in tre volumi, pubblicati tra il 1981 e il 1991, cui si ispira il film. Attraverso l’espediente del libro incompleto dei racconti orrorifici di Sarah Bellows, trovato proprio dalla protagonista, nella casa spettrale dove un tempo lontano abitava Sarah, André Øvredal, insieme a Guillermo del Toro, in veste di produttore e autore del soggetto del film, torna a riflettere, dopo Troll Hunter e Autopsy, sull’orrore del reale, questa volta muovendosi lungo il carattere profondamente disturbante, tanto da essere bandito dagli scaffali delle scuole, della raccolta di storie folkloristiche, leggende e racconti macabri scritta da Alvin Schwartz e illustrata da Stephen Gammell.
L’adolescenza come missione dai contorni spaventosi, come un’avventura dove a volte ci si perde, senza riuscire a trovare una via d’uscita, ne sanno qualcosa gli amici di Stella, è una storia che si tramanda di generazione in generazione, allo stesso modo dei racconti di Alvin Schwartz. Una storia sulla quale il cinema horror continua a tornare, fino ad aver codificato gli elementi ricorrenti di un sottogenere che ha fatto della nostalgia, tra piaceri citazionisti, rivisitazioni del passato e la costruzione di un’identità generazionale, il proprio elemento fondativo, prodotti come il primo capitolo di It o Stranger Things parlano chiaro a questo proposito.
E all’espediente nostalgico come creazione di uno spazio condiviso sembra non rinunciare neanche Scary Stories to Tell in the Dark, pur spostando il luogo dalla mitologia eighties alla fine degli anni ’60. Sulle pareti della stanza di Stella c’è il poster di Vincent Price, la fuga dopo la scorribanda nella notte di Halloween ai danni dei bulli di turno si conclude in un drive-in, con le immagini de La notte dei morti viventi sullo schermo e la protagonista che conosce a memoria tutte le battute del film. Ma ad André Øvredal non interessa un’idea di cinema come parco giochi dell’immaginario. Le carambole citazioniste non hanno nulla del piacere malinconico di progetti come Piccoli Brividi. Piuttosto, diventano un modo per aprire un discorso sul carattere ancestrale dell’orrore. Un modo per scendere sotto la superficie, mostrando, con lo stesso carattere allucinatorio del tratto di Stephen Gammell, le fondamenta malate sulle quali si poggia il mondo.
Per Stella e i suoi amici non si tratta solo di cercare un modo per sopravvivere ai traumi delle loro personali storie d’orrore in uno spazio dove la presenza degli adulti è ridotta quasi allo zero, quelle di Dean Norris e Gil Bellows nei panni del padre di Stella e dello sceriffo di Mill Valley sono solo comparse laterali. In Scary Stories to Tell in the Dark il trauma adolescenziale apre la via ad un ragionamento sul Male storico, l’ascesa di Nixon, il tempo della paura e l’orizzonte del Vietnam, questi, sì, i veri spettri che infestano l’immagine e incombono sul futuro. E allora, riprendendo le fila di una riflessione che innerva il cinema di Guillermo del Toro, André Øvredal ci dice che se sono le storie a definire chi siamo, il viaggio orrorifico con cui dover fare i conti è la Storia stessa.