Rumba – L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato, di Ascanio Celestini

Tra la vita di San Francesco e disperate rasoiate di vita di periferia, Celestini trova ancora una straordinaria tangenza confermandosi come il più empatico cantastorie di popolo del teatro

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Ma non è questo che volevo raccontare“. Ad un certo punto di questo suo ultimo, bellissimo lavoro Rumba – L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato, Ascanio Celestini si trova ad usare quest’anafora a mo’ di attenuante per giustificare le deviazioni che il suo fitto monologo sta prendendo quasi suo malgrado. Come se sentisse l’esigenza di riparare scenicamente alla violenza drammatica esperita dal migrante Josef – i cui punti di tangenza con quella del giovane Seydou di Io capitano, di Garrone sono così evidenti da urticare soltanto noi privilegiati che per decenni abbiamo fatto finta di non vedere -, l’attore e autore dello spettacolo da noi visto al Teatro Vittoria di Roma e prodotto da Fabbrica, Fondazione Musica Per Roma, Teatro Carcano commissionato dal Comitato Nazionale Greccio 2023 con il sostegno del Ministero della Cultura tramite la Direzione Generale Spettacolo, finge di impelagarsi durante il suo eloquio incespicante in queste secche narrative. Ma è solo un sotterfugio dilatatorio che nascondendosi dietro questo mendace sbaglio serve ad un certo punto a far arrivare con ancora più forza il ricordo reale di una delle tante “tragedie del mare” del nostro presente. Testimonianza che sembra anch’essa uno sbarco scenico atterrato senza autorizzazione sul palco attraverso il voice-off di una cooperante che singulta sul ricordo degli otto piccolo cadaveri, restituiti dalla distesa d’acqua salata in cui “anche i pesci affogano” e che si chiude magnificamente con la ripresa perentoria della conduzione narrativa da parte di Celestini con “Ed è questo che volevo raccontare“. È proprio questo acuto retorico a restituire par excellence la dimensione di uno spettacolo che colpisce durissimo proprio nei momenti di allentamento della tensione, quando magari la biografia di Francesco d’Assisi, che l’interprete romano racconta a pezzi come le reliquie dei santi (“ci sono tre teste di San Giorgio” e “così tanti chiodi della croce che neanche in un ferramenta“), sembra farlo intruppare in una dimensione quasi escapista inusuale nella sua ampia produzione teatrale. E allora la poesia iniziale dell’enumerazione delle stelle torna, questa volta come un maglio, nell’altrettanto impossibile conta dei migranti che perdono la vita in quel cimitero d’acqua che è il Mediterraneo, in cui anche i defunti restano terribilmente anonimi come le bestie con cui parlava Francesco perché “i morti non sono davvero morti fino a quando qualcuno non li seppellisce“. Rumba – L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato nei suoi 110 minuti di durata presenta una carrellata di temi e personaggi collegati in modi misteriosi e trasversali al magazzino di logistica sperso, come tutte queste cattedrali distributive, nella periferia di un’anonima città. Qui i lavoratori italiani sono due ed il resto, in un Paese fondato sul subappalto, è manovalanza africana. In questo segmento Celestini si concentra con mirabile empatia su Giobbe, l’analfabeta che, di fronte alle accuse mossegli dal superiore di rubargli una tazzina di caffè dal thermos, nel corso degli anni è arrivato ad allungarglielo con la sua minzione (“ha calcolato che il prevosto si è bevuto 75 litri di piscio suo“). Anche in questo caso la simpatia di alcuni quadretti corali e di battute al fulmicotone di stampo benniano (- “E che hanno di fragile negli Usa?” – “La democrazia“) funziona da paravento alle folate drammatiche che improvvisamente arrivano a turbare il riso dello spettatore.

Se il povero Giobbe muore infatti nel cesso con la scritta Toilette che era riuscito a leggere solo con molta fatica, anche il destino del seppellitore Josef non sfugge alla violenza di uno Stato che lo tratta come un cittadino di serie B. Ecco che quando il suo memoir arriva alla detenzione scontata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il recente passato esplode come un fulmine. La mattanza compiuta il 6 Aprile 2020 da un gruppo di agenti di custodia, con grida belluine come “Famo er G8“, contro alcuni detenuti della struttura è difatti un altro tassello di brutale recente passato che serve quasi a punteggiare la biografia storica di Francesco d’Assisi che marca lo spettacolo. Come un cantastorie pieno di pathos ma che non arretra nemmeno di fronte la morte dei suoi personaggi, Celestini durante le due ore della pièce scavalla però la sua sensibilità pasoliniana anche verso gli “altri”, come nel caso del sublime tratteggio caratteriale del padre fascistoide di Morlupo. Ad un uomo chiuso nei soliti pregiudizi razziali pervasi d’odio e ignoranza – il fatto però che il pubblico sogghigni con gusto alle grevi battute sugli “zingari” la dice lunga sul radicamento di questi concetti -, la malattia fatale del figlio serve solo come avallo alle sue nefaste convinzioni e non magari come apertura verso una società in cui cercare di lenire questa sofferenza che non ha requie se lasciata macerare solo al proprio interno. Rumba – L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato non propone mai facili soluzioni retoriche fino al finale, tagliato con misura sartoriale sulle alterne fortune dell’uomo che seppe ammansire perfino il lupo di Gubbio. Qui Celestini rinfocola quella sua tipica allergia alle istituzioni decostruendo il concetto di santità proprio a partire da quella di Francesco che la Chiesa ad un certo punto definì “inimitabile” – per renderlo in tal modo un esempio di eccellenza non perseguibile da chiunque – e affibbiando le stimmate di sacralità anche agli “ubriaconi del bar” e all’Italiano del magazzino che non riesce a salvare il suo collega nonostante il corso RSPP. Così, tra l’amarezza di una risata mai estemporanea e la bellezza che si cela anche dietro la prosaicità del quotidiano non resta che consolarsi con questi stordenti cahier de doleances situati in quella sublime “via di mezzo tra melanconia e malinconia

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