SOTTODICIOTTO FILMFESTIVAL 9 – La Francia "mai vista" di Lamorisse
Nella Camargue che assomiglia a un set western, e nella Parigi più nascosta, Albert Lamorisse posò il suo sguardo di cineasta puro negli anni Cinquanta. A questo regista di rara sensibilità, di preziosa leggerezza pre-nouvelle vague (Bazin gli dedicò pagine significative), che avrebbe visto la sua vita interrompersi improvvisamente nel
Un film, quest’ultimo, interpretato dal figlio di Albert, Pascal, mitico per generazioni di bambini francesi, ma pressoché sconosciuto in Italia. E un film cui fa esplicito riferimento, compresa la citazione finale, Hou Hsiao Hsien nel suo magnifico Le voyage du ballon rouge. Cinquant’anni separano il film di Lamorisse da quello di Hou. Uniti, invece, i due testi, dall’incipit: un bambino che cerca di raggiungere un palloncino rosso fuori campo, arrampicandosi su un lampione o una ringhiera. E uniti dalla presenza di quel palloncino rosso che respira, osserva, pedina, accompagna i bambini (di Lamorisse, di Hou), condividendo con loro una purezza di contatto estranea invece agli adulti o a altri ragazzini. E quel palloncino, nel mediometraggio di Lamorisse, si innamora anche, di un altro palloncino, blu, incontrato per strada.
Cinema di poesia, denso di citazioni e libero da esse, quello di Albert Lamorisse (che esordì nella regia nel 1947 con il documentario Djerba), surreale e comico, intreccio di documentario e finzione per scavalcarli e andare, rossellinianamente, oltre, raccontato a misura di bambino, come favole per salvarsi dal mondo di adulti che hanno perso le emozioni e il piacere dello stupore, del gesto gratuito, che non chiede nulla in cambio, che si offre in tutta la sua flagranza a altri corpi ribelli. Il palloncino (che ci porta nel cuore e nei colori di una Parigi mai vista, fin nei suoi vicoli più oscuri, da città del sud…) come il cavallo selvaggio protagonista di Crin blanc (e come i molti altri animali che popolano la sua filmografia…), che Lamorisse girò in Camargue, storia dell’amicizia contro tutto e tutti tra un ragazzino, pescatore, e un cavallo bianco che inutilmente i cowboy del posto cercano di domare. I due film stanno in straordinaria sovrimpressione, e sono abitati da altrettanti finali nel segno della fuga verso un altro mondo, luogo fuori campo verso cui si incamminano, nuotando nel mare (il ragazzino e il cavallo) o volando in cielo (il bambino e la miriade di palloncini, in una scena che cancella quella di Miracolo a Milano), e sparendo, i corpi di lieve e inesauribile tenacia amati da un regista cui Cannes ha ridato visibilità. Nella speranza che altri sguardi innamorati facciano viaggiare queste immagini di flagranza inaudita e il loro respiro intimo e epico.