#TFF33 – In un’altra lingua (#TorinoSense8)

Ci sono tracce precarie che collegano alcuni film di quest’edizione, come brandelli di una memoria impossibile, segni emergenti di un cinema vitale e infinito

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La memoria, per quanto naturale possa sembrare, è un’impresa impossibile.

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Kidlat Tahimik ritrova, tra le pieghe nascoste del tempo, le immagini “incomplete” del suo film sulle origini delle Filippine. Un film mai terminato, esattamente come il viaggio sognato, progettato, inseguito da Magellano fino allo sfinimento, fino all’incontro con Lapu Lapu a Mactan. Pochi giungeranno a destinazione. Pigafetta, Elcano… Ma prima e più di loro, sarà probabilmente un altro a portare a compimento il giro del mondo: quell’Enrique di Malacca, lo schiavo prediletto,  che secondo una versione della storia veniva proprio dalle Filippine… Rapito dai mercanti di schiavi malesi, venduto ai cinesi, poi comprato da Magellano in un mercato di Sumatra, catapultato alla corte di Spagna, compagno di giochi (proibiti) della principessa Isabella. Poi di nuovo in viaggio, attraverso l’Atlantico, lo Stretto, e poi il Pacifico. Fino a Cebu, fino a casa. Il viaggio perfetto, il globo circumnavigato, il pleriplo realizzato. Ma è solo una versione, dicevamo. La storia si confonde col mito. E resta un residuo di mistero, di ignoto, lasciato alla deduzione e all’ipotesi degli storiografi.

Tahimik abbraccia il mito. Da oltre trent’anni. Dà il proprio volto e il proprio corpo a Enrique, ma non può compierne la storia tutt’intera. Chi è, cosa ne è stato, a parte quel po’ che sappiamo, quelle immagini che emergono come iceberg dall’oscurità del passato? Ecco, per Tahimik il punto non è portare a termine l’opera. Perché ha capito che è ormai impossibile ricostruire la Storia se non per frammenti, per tracce riesumate dal fondo di un lago, da una vecchia cassa sepolta. Tracce labili come le immagini di una vecchia 16mm. Nastro in decomposizione, come quello del VHS di Ross Sutherland… Quel che interessa Tahimik, invece, è ritrovare il personaggio, e, per suo tramite, il senso della propria vicenda di regista e attore, il senso del suo filmare, della propria pratica cinematografica. In una proiezione narrativa spaziotemporale da brivido, immagina così un viaggiatore occidentale alla ricerca di un uomo misterioso, che è poi l’Enrique del film incompiuto, che è poi “il ritratto dell’autore da giovane”… E a che arriva a questa ricerca? A uno scioglimento apparente, che non è mai la soluzione piena, ma il principio di un’altra ricerca, di un altro percorso lungo le orme selvagge ed herzoghiane di un personaggio enorme eppur sfuggente, di un non-autore inclassificabile, nascosto nello pseudonimo, nello sdoppiamento del nome. Eric de Guia/Kidlat Tahimik…

a-vida-e-estranhaIl cinema manca il suo soggetto. Lo scopre, ma non lo inquadra, come il Mario de’ Marcella dello straordinario Il Solengo. La verità si perde nella babele delle lingue e dei segni, dal tagalog al waray. Il linguaggio parla, ma non chiude. È uno sforzo abnorme e commovente, come il balbettio di Kaspar Hauser. E il film rimane aperto, organismo in divenire, in progress, come una stratificazione incontrollata e vitale capace di accogliere sempre nuovi apporti, nuovi interventi, costantemente disposta all’ennesimo Redux. Le immagini si affastellano senza un ordine prestabilito, sono segni casuali strappati al buio dell’indistinto, testimonianze di un istante di vita “estranha” che vuol dire, ma non ha un significato univoco, preciso, come nel filmino delle vacanze di Glauber Rocha e Mossa Bildner. Memories of overdevelopment di un cinema “terzomondista” (cosa vuol dire?) che pratica la variazione e la distrazione, che rifiuta le strutture scolastiche, controllate e normalizzatrici degli sguardi autoriali preimposti, le formule matematiche dei film “intelligenti”. Quelli nati già morti, senza respiro.

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