#TFF36 – Blaze, di Ethan Hawke

Un biopic quasi impressionista, che mescola piani temporali diversi, in un cinema vintage fatto di colori e suoni. Altra bella prova dietro la macchina da presa per Ethan Hawke

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La presenza, istantanea e fuggevole di Kris Kristofferson, è forse più di un segno. Forse è l’insopprimibile sentimento di nostalgia che attraversa Blaze, il terzo lungometraggio dietro la macchina da presa di Ethan Hawke dedicato alla vita e alla carriera del misconosciuto cantante country Blaze Foley morto nel 1989 a 39 anni. Affidandosi all’ingombrante e trasparente presenza di Ben Dickey, premiato al Sundance, Hawke mescola il piani temporali per un biopic quasi impressionista, con dentro i colori e il respiro della Hollywood degli anni ’70. Kristofferson sarebbe stato forse il protagonista di Blaze se il film fosse stato girato in quel decennio secondo la testa di Hawke. Che è un omaggio al personaggio ma anche alla musica country. If I Could Only Fly, uno dei suoi brani più celebri. In un film che sembra quasi una totale soggettiva. Non attraverso gli occhi ma che entra proprio dentro la testa di Blaze. Ne assume il ritmo, lo segue nel suo passo zoppicante, cattura la musicalità dalle sue parole. Nei locali pieni di fumo e di luci, nelle strade di notte. Filtrato attraverso le memoie della moglie Sybil Rosen, la moglie del protagonista, autrice del libro Living in the Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley da cui il film è tratto, Che anche sceneggiatrice del film assieme a Hawke e interpreta anche il piccolo ruolo della signora Rosen.

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Come nel notevole secondo lungometraggio dell’attore statunitense, The Hottest State – L’amore giovane, si avvertono in Blaze due forze contrarie: immedesimazione e, insieme, espulsione dal personaggio. Alla ricerca impossibile di una distanza che Hawke non riesce a trovare. Ed è così che emergono i brani di vita, la testimonianza postuma dell’amico Townes Van Zandt che gli rende omaggio in una trasmissione radiofonica. Quindi la sua immagine è continuamente filtrata. Da come viene filmato. Ma anche da come viene raccontato. Che ne creano un’altra immagine. Forse simile, forse diversa.

Non c’è il modello ma probabilmente l’anima di un certo cinema di Richard Linklater, qui in un cameo nei panni di un manager petroliere assieme a Sam Rockwell. E i segni della sua presenza, come il testo della canzone scritta sul muro. Pieno di slanci e di rabbia: il primo incontro con Sybil, l’impetuosa scena del matrimonio in ralenti, la fine della (loro) storia (“Credo che i miei giorni di musa siano finiti” dice la donna), la scena in cui viene cacciato dal locale. La sua ultima notte. Cappello in testa. In un film che si porta dentro la vita e i suoni della vita di Blaze. La chitarra e la fisarmonica come la voce. In un omaggio intenso, con un cinema non vecchio ma vintage (visto che questa parla garba tanto) dove Hawke fa veramente il cinema che gli viene da dentro. Forse per questo sa mostrare la ‘fine delle storie’ come se gli appartenessero davvero.

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