#TFF37 – Dreamland, di Miles Joris-Peyrafitte

Non ci si libera del peso dei modelli illustri in questo film. La fuga d’amore di due giovani banditi in un Texas rurale in odor di Grande Depressione. Bonnie e Clyde senza la loro iconicità.

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Si diceva un tempo, in Europa, che l’America fosse la terra promessa, pronta ad accogliere in quelle lands sconfinate, dove la linea dell’orizzonte scompariva sotto cieli immensi, chiunque vi si volesse avventurare. Terra di miti dal grande fascino cui Dreamland, ultimo film di Miles Joris-Peyrafitte, presentato in Festa Mobile, sembra pescare a piene mani: c’è la strada, il bandito, ma soprattutto la suggestione imperitura della frontiera.

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In un Texas rurale e desolato che ci riporta alla mente atmosfere steinbeckiane, in cui è la natura a scandire i ritmi della vita, il giovane Eugene (Finn Cole), figliastro del vice-sceriffo, sogna di diventare come gli eroi dei libri che ogni giorno trafuga: un fuorilegge gentiluomo, un mito, appunto, come Billy the Kid. Sombrero e pistola d’ordinanza per partire all’avventura lungo il gigantesco continente.

La bandita in questo caso è una donna, la bellissima Allison Wells, interpretata da Margot Robbie (che del film è anche produttrice), sulla cui testa pende una taglia da 10.000 dollari. Il destino offre allora a Eugene la possibilità di prendere finalmente parte ai suoi sogni e ad evadere da una realtà senza uscita, fatta di polvere e miseria, quando la bionda criminale ferita si rifugia proprio nel suo granaio abbandonato. Non c’è esitazione o turbamento: la brama per l’avventura e i sintomi inequivocabili dei primi amori lo convincono a fuggire con lei.

La cinematografia sulla fuga si sa, non smette mai di arricchirsi, ma qui, con una giovane coppia a godersi la neonata passione on the road sotto cieli senza fine, la luce elegantemente riflessa in macchina, la voce che narra fuori campo, non ci sono dubbi: tutto grida Terrence Malick.

Ma non c’è in Dreamland la straordinaria, arrabbiata e tragicamente romantica forza di La rabbia giovane, e de I giorni del cielo resta solo un vago ricordo nella bellissima scenografia. Perché proprio quando la fuga d’amore verso la frontiera messicana, terra dei sogni in cui gli “alberi sono verdi”, ha inizio, il film rimane insabbiato in un catalogo di riferimenti più in odor di emulazione che d’imitazione.

È d’obbligo, ça va sans dire, citare l’Arthur Penn di Gangster Story perché Allison e Eugene, simili a Bonnie Parker e Clyde Borrow ma senza la loro iconicità, rapinano e uccidono, andando incontro a un prevedibile finale, in cui è una pioggia biblica a lavar via le colpe e a dare l’assoluzione a chi la merita.

In Dreamland i sogni, seppur piacevolissimi, sono decisamente più grandi della realtà. Non ci si libera, volutamente (?) dal peso degli antenati illustri. Si finisce così per dimenticare quell’insegnamento beat che ci ha lasciato in eredità Jack Kerouac e che risuona in ogni road movie che si rispetti: “la strada è vita”.

 

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