#TFF41 – Castelrotto. Incontro con Damiano Giacomelli
La nostra intervista con il regista che ha realizzato un noir che esplora le contraddizioni del nostro presente tramite una piccola storia di vendetta. Con Giorgio Colangeli e Denise Tantucci
Proiettato in anteprima nella sezione Fuori Concorso/La Prima Volta e diretto dall’esordiente (nell’opera di fiction) Damiano Giacomelli, Castelrotto è un noir che esplora le contraddizioni del nostro presente tramite una piccola storia di vendetta. È protagonista Giorgio Colangeli, coadiuvato da Denise Tantucci e un cast di attori professionisti e non. Abbiamo intervistato il regista per farci raccontare qualcosa in più.
Il progetto nasce dalla volontà di mostrare una certa provincia, quella marchigiana, ma quando hai capito che avresti raccontato proprio questa storia e questo personaggio?
La fonte risale a piccoli fatti di cronaca della zona in cui vivo, nell’interno maceratese, poi ho cominciato a vivere quei fatti con un punto di vista che è quello di Ottone. È stato un percorso abbastanza lungo, proprio come anni di lavorazione. In realtà, per un po’, a partire dal 2014, ho semplicemente preso appunti. Mentre il periodo di scrittura vera e propria, con la consapevolezza e l’obiettivo di un film narrativo, ha preso il via da fine 2018. Inconsciamente mi interessava molto raccontare un piccolo intellettuale di paese decaduto perché ne avevo tanti intorno… il mio sentire, vivendo lì, era che molti ex progressisti, per motivi contingenti alla loro esperienza diretta, avevano abbandonato i valori che li guidavano in precedenza e in qualche modo si stavano “incarognendo”. Per Ottone la cosa che mi interessava di più era una certa contraddittorietà nel senso che è difficile prenderlo come trend topic, no? Cattivo, conservatore, magari lo sembra all’inizio, però man mano che persegue questa strettissima vendetta personale alimenta un’energia positiva legata allo scrivere e all’investigazione. Nel finale del film l’esito di questo dualismo che ha in sé è persino paradossale. Insomma, vivendo quei contesti, trovo piuttosto realistico il percorso di questo personaggio.
Si può dire che in Ottone c’è anche un senso di colpa riguardo il suo atteggiamento nei confronti del mondo e le azioni passate che lo hanno portato alla presente solitudine?
Penso si possa dire, tanto che c’è tutto un controcoro nei paesani, e nelle parole di chi lo conosce da tempo, da cui si evince un Ottone che noi non vediamo, quantomeno non nella prima parte del film. Qualche momento di umanità ma anche un’evoluzione quasi lisergica in queste aperture di energia positiva, legata al piacere della scrittura. Certamente all’inizio è molto costretto, ma piano piano i dubbi si palesano e lo smuovono.
Come hai lavorato con il romano Colangeli sulla parlata locale?
Ci sono stati tre livelli. Il primo è che gli ho mandato registrazioni delle battute lette da me perché, come si diceva degli italiani che andavano in America ma continuando a sognare in italiano, io ho vissuto lì e quindi sogno in maceratese! [ride]. Il secondo livello è stato l’intervento di una coach, che l’ha aiutato molto a sviluppare quel linguaggio che sentiamo. E il terzo è stato il fatto di aver vissuto un po’ di tempo con un abitante di questo paese in cui abbiamo girato che si chiama Torchiaro, un borgo all’interno del comune di Ponzano di Fermo. E quindi si è imbevuto anche antropologicamente, se vogliamo, di quel contesto. Ma questo interscambio non ha influenzato solo lui, anzi, ha toccato l’intera lavorazione: mentre preparavo il film avevo ancora delle parti da coprire e li ho trovati lì andando in giro per il paese. C’era molta curiosità nei nostri confronti da parte degli abitanti, era diventata una specie di “Cinecittà de noantri” perché lo scenografo ha usato diversi locali sfitti per ambientare alcune scene. Quindi si sono creati ottimi presupposti.
E, più in generale, quale contributo ha portato l’attore nella costruzione del personaggio?
Lui ha letto una delle prime stesure nel 2019 e ha sentito subito la storia. Quindi ha sviluppato brevemente un suo punto di vista su Ottone. Partendo da questo, dal suo essere dentro il progetto fin da subito, ci sono stati dei passaggi abbastanza importanti in cui abbiamo discusso insieme, una fase di condivisione dei punti di vista.
Cosa cercavi per il personaggio di Mina e come hai scelto Denise Tantucci?
Cercavo un’aliena da catapultare nel contesto in cui è ambientata la vicenda, sia come presenza fisica e di linguaggio sia come intenzioni. Cercavo una figura che portasse un punto di vista completamente diverso e quindi abbiamo fatto dei casting. Alla fine lei è stata molto efficace. Tra l’altro, Denise è marchigiana ma, vivendo da molti anni a Milano, capiva bene certi atteggiamenti del personaggio.
A un certo punto Ottone afferma «La cronaca mi ha scocciato». Il cinema, in quanto arte, può fornire strumenti per interpretare la realtà meglio dei fatti che sono fuorvianti?
I fatti sono fuorvianti ma molto più spesso semplificati nelle interpretazioni, soprattutto oggi, nell’epoca delle grandi polarizzazioni. Si creano delle posizioni estreme che funzionano finché attingono a un determinato senso e poi aggiornate continuamente per guidare un consenso. Questa cosa mi ha stufato da parecchio tempo… è una riflessione che ho ormai metabolizzato. Parlando di territori nascosti come la provincia raccontata nel film, quei paesini storicamente semplificati dalla narrazione anche cinematografica, mi interessava restituire una complessità, le difficoltà, i limiti, e ho cercato di farlo anche con i personaggi più secondari della vicenda. L’ho fatto anche accettando delle aperture che non sempre assecondavano le esigenze del raccontino chiuso perché da spettatore ho sempre apprezzato i film che si lasciano interpretare e completare dal pubblico.
Quale cinema ti piace guardare? Avevi dei riferimenti mentre preparavi Castelrotto?
Autori di riferimento miei personali sono tanti e posso farti qualche esempio sparso come Bertolucci, Kieślowski… Per quanto riguarda il film, in scrittura, ha avuto un ruolo la passione per i fratelli Coen. Mentre la messa in scena probabilmente mostra un interesse per il cinema del Dogma 95, in particolare Idioti e Il grande capo di Von Trier. Mi piace l’idea di poter sporcare l’immagine e il movimento, di usare luce naturale dove possibile e staccare una ripresa quando lo sento. Ad esempio nella prima scena, quando Ottone carica il fucile, dal punto di vista narrativo e dell’immaginario ho cercato di settare il rapporto che c’è fra la casa del protagonista e la piazza. In fase di preparazione ho visitato oltre quaranta paesini in cerca di una casa che avesse una caratteristica: che la piazza pubblica sembrasse un’estensione del privato, quasi un cortile. Io sono cresciuto in una casa simile e sapevo quanto fosse importante riprodurre questa dinamica visivamente. Ottone è una persona il cui privato riflette fortemente sulla comunità di cui fa parte. E quel piano sequenza iniziale serviva a settare questa situazione. E poi tutto il lavoro da me fatto in precedenza sul documentario mi ha facilitato, essendo il film autoprodotto, la gestione dei mezzi.
Mi sembra importante evidenziare come il personaggio è presentato, senza troppa empatia.
Quasi un mockumentary. All’inizio Ottone è respingente, poi col proseguire del racconto riceviamo informazioni su di lui che ce ne mostrano la complessità. Un po’ come quando si legge un articolo di giornale, entriamo nel vivo della vicenda con i dati più rilevanti e poi man mano approfondiamo. Mi piaceva l’idea di riuscire a costruire un percorso di questo tipo, non del classico eroe appunto.