"Il grande capo" di Lars Von Trier

Cinema iper-parlato e iper-cinetico, sconvolto dal punto di vista irrazionale, dove il decentramento della messa in quadro della nuova tecnica "brevettata" dal suo autore, l'automavision, distrugge il reale per farsi puzzle schizofrenico di una realtà teatralizzata, senza punti di riferimento precisi che non siano caos e sberleffo automatizzato

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Per ogni suo  film il Von Trier-autore ne ha sempre una nuova da inventarsi. Stavolta dopo realismi dogmatici, contaminazioni musicali e scenografie "invisibili" allestite in studi teatrali, tocca all' Automavision, sistema con cui una volta scelta la posizione della cinepresa spetta poi a un computer programmato fornire una lista di possibilità da applicare (panoramiche, obiettivo, messa in quadro, filtraggio sonoro, ecc.). Quasi a sancire la definitiva (?) perdita di controllo da parte dell'autore sulla sua opera.

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Le idee del cineasta danese continuano a essere minate da un esplicito disprezzo nei confronti della messa in scena classica e da una costante assenza di ogni possibile forma di trasparenza tra stilizzazione e narrato. Detto questo il "nuovo" Lars Von Trier è una commedia a sprazzi molto divertente, che accantona le tragiche eroine e i temi alti in favore di uno sperimentalismo ludico da semplice operazione ricreativa (come già accadeva ne Le cinque variazioni). Protagonista de Il grande capo è un attore fallito a cui viene chiesto di interpretare per una settimana nella vita reale l'inesistente proprietario di un'azienda che sta per essere venduta. Questo perché il vero proprietario non ha nessuna voglia di assumersi la responsabilità dei futuri licenziamenti. Toccherà quindi al finto "grande capo" fare i conti con gli scrupoli morali e le dure leggi del mondo del lavoro.


Cinema iper-parlato e iper-cinetico, sconvolto dal punto di vista irrazionale, dove il decentramento della messa in quadro della nuova tecnica "brevettata" dal suo autore distrugge il reale per farsi puzzle schizofrenico di una realtà teatralizzata, senza punti di riferimento precisi che non siano caos e sberleffo automatizzato. Eppure c'è un elemento che rende Il grande capo, operazione più suggestiva rispetto ai soliti lavori del cineasta danese: risiede nella assuefazione addormentata che l'oltranzismo stilistico impone a un corpo-sguardo (lo spettatore in sala) non più violentato dalle maree digitali in stile dogma. Stavolta davvero lo sperimentalismo di Von Trier è fine a se stesso, non produce ambigui ricatti vouyeuristici ne facili infatuazioni estetico-autoriali. La camera se ne sta per conto suo, fa di tutto per allontanarsi dalla storia e dai personaggi che fanno il film, per poi alla fine venirne clamorosamente soggiogata.


E allora il nuovo Von Trier potrebbe anche rivelarsi sorprendente documento sulla vacuità percettiva che la tecnica (non) impone all'occhio. Insieme fumoso di angolazioni innocue, che si allontanano dall'oggetto filmato senza creare strappi, abituando lo spettatore a una frammentarietà che sotto traccia continua a narrare in linea, regia superflua sempre al servizio di un canovaccio scritto, quello sì irreparabilmente dogmatico. Sperimentazione non più riconoscibile e riconosciuta. Tra l'immagine e la parola vince la seconda, scrittura e teatro tornano a dettar legge. Punto e a capo. Cinema chiuso…. all'inverso.


 


Titolo originale: Direktøren for det hele


Regia: Lars Von Trier


Interpreti: Jens Albinus, Peter Gantzler, Fridrik Thor Fridriksson, Benedikt Erlingssn


Distribuzione: Lucky Red


Durata: 99'


Origine: Danimarca/Svezia, 2006


 

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