The Sparks Brothers, di Edgar Wright

Collage sfrenato di immagini, confessioni, suoni e canzoni che rispetta il format del documentario musicale ma allo stesso tempo ne raddoppia dimensioni e punti di vista. Da oggi al 1° settembre.

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Un crescendo di sintetizzatori e il coro che canta Fanfare. Pochi secondi e siamo già nel mondo degli Sparks, nel loro sound, in quel misto di autoironia, sperimentazione musicale, senso dello spettacolo che ha reso dalla fine dei Sixties a oggi il duo dei fratelli Mael amato, spesso spiazzante e inclassificabile. Non a caso Edgar Wright gioca presto con le definizioni e le catalogazioni ai tempi di Wikipedia ponendo sin dai primi minuti ai protagonisti (e al pubblico) le domande cruciali: chi sono gli Sparks? quanti album hanno inciso? quante canzoni? sono inglesi o americani?

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Russell (il vocalist) e Ron (compositore, tastierista e baffetto alla Hitler/Chaplin ) si raccontano partendo dalla loro infanzia in California, l’influenza di Hollywood, del primo rock ‘n roll e della surf music. Dalla loro prima incisione, Computer Girl, che sembra presagire temi e musica dei Karftwerk, alla passione per Kinks e Who e all’inevitabile traferta in Inghilterra dove arriva il successo con Top of the Pops e il singolo This town is not big enough for both of us. I successi sono altalenanti come i generi musicali che cambiano continuamente: brit pop, glam rock, hard rock, vaudeville. Poi l’incontro con Giorgio Moroder produttore nel 1979 e la scoperta del “suono del futuro”. Esce il memorabile N.1 in Heaven, forse il più grande album di disco elettronica di tutti i tempi. Poi alcuni momenti di oblio. E altre rinascite: When do I get to sing “My Way” (1994), Lil’ Beethoven (2002). Cinquant’anni di canzoni musica, concerti, raccontati in prima persona da Ron, Rusell e una sfilza di collaboratori e fan di lusso (Flea, Moroder, New Order, Neil Gaiman, Franz Ferdinand, lo stesso regista Edgar Wright). Ma c’è anche il cinema: la loro formazione alla Ucla e la passione per i film di Bergman e Godard, le mancate collaborazioni con Jacques Tati e Tim Burton fino ad arrivare a quella recentissima con Leos Carax, che ha portato ad Annette presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes.

Come se fosse una delle tante, micidiali playlist di Baby Driver, Wright miscela le interviste in bianco e nero fatte ai protagonisti oggi, con immagini di repertorio, videoclip degli anni ’70, ’80, ’90, 2000, frammenti di cinema d’autore. Cura i dettagli visuali, il look di un lavoro evidentemente molto personale a mo’ di artista concettuale (proprio come gli Sparks del resto). Ne viene fuori un collage sfrenato di immagini, confessioni, suoni e canzoni che rispetta il format del documentario biografico ma allo stesso tempo ne raddoppia dimensioni (140′), punti di vista e possibilità interpretative sulla cultura pop dal Dopoguerra a oggi. Come se gli Sparks fossero l’espediente per osservare e sviscerare tutte le formule espressive dell’immaginario musicale e non solo degli ultimi cinquant’anni. E per ribadire una poetica autoriale – di Wright come degli Sparks Bros. – incentrata sull’ironia situazionista e una continua ricerca espressiva. E quindi: può un “semplice” documentario musicale raccontare la storia di un gruppo, parlare di marketing e omaggiare il cinema? Se i protagonisti sono gli Sparks e a dirigere c’è un grande come Edgar Wright la risposta è scontata.

Titolo originale: id.
Regia: Edgar Wright
Distribuzione: Lucky Red, Universal Pictures
Durata: 140′
Origine: USA/UK, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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