VENEZIA 60 – ANTEPRIMA Incontro con Matthew Brown, regista di "My Father's Garden"

Matthew Brown, al debutto dietro la macchina da presa, dirige la "nostra" Maya Sansa nel ritratto della psiche di una donna che si confronta per la prima volta con suo padre e con il suo passato. Un'opera ricca di atmosfere, visionaria, tra Cassavetes e Kieslowsky. Il mediometraggio sarà a Venezia nella sezione Nuovi Territori il 3 settembre.

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SS: Come si è svilluppato il tuo rapporto con il mondo dello spettacolo?

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Sono nato in Sudafrica ma sono emigrato negli Stati Uniti quando avevo diciassette anni. Sin da quando studiavo letteratura inglese all'Università in California a Santa Barbara, ho sempre scritto. A diciannove anni ho scritto la mia prima sceneggiatura, ma all'epoca non pensavo di diventare un regista. Se avessi scritto una sceneggiatura con me come protagonista avrei potuto trovare qualcuno per realizzare il film. Non pensavo a tutto il processo per realizzare un film: trovare gli investitori, e mettere tutto quanto insieme. In questo periodo stavo recitando in alcune produzioni teatrali locali. (Ridendo) La prima rappresentazione a cui ho partecipato è stata quella in cui ho interpretato il ruolo di un travestito che si prostituisce. Ero completamente depilato alle gambe e sotto le ascelle, e la madre della mia ex ragazza era un make up artist, mi ha messo una parrucca biondo platino. È stata un'esperienza esilarante. Ho continuato a recitare a teatro mentre ero all'università facendo produzioni universitarie e a Santa Barbara. Avevo questo sogno di andare, dopo la laurea, a scuola di recitazione a Londra, iniziare a lavorare alla Royal Shakespeare Company e poi andare a Hollywood.



SS: Come era la vita a Londra?



Io la ho detestata (ride). Proprio a Londra ho incontrato Maya alla Guildhall School of Music and Drama, una delle scuole più competitive. Studiavamo in un corso di tre anni ma io ho lasciato dopo sette mesi. Quelle scuola non mi andava bene, forse perchè mi avevano già lavato il cervello al Lee Strasberg Theatre Institute a New York, dove avevo studiato precedentemente. Ma forse la regione per cui ho lasciato è che sentivo il bisogno di scrivere. Scrivevo sempre e dovunque: in classe, nei caffè, nella metropolitana. I momenti più felici erano quando leggevo le mie poesie agli altri studenti. Più tardi uno dei professori mi ha chiesto se avrei preferito recitare o scrivere. Non ho saputo rispondergli, ma il mio istinto diceva: scrivere.



SS: E dopo cosa è successo?



Dopo Londra sono tornato in America e mi sono iscritto al Lee Strasberg Theatre Institute e ho preso un agente. Non molto dopo ho avuto un ruolo in God's Army di Richard Dutcher girato a Los Angeles dove interpreto questo mormone diciannovenne. Ho imparato molto di questa cultura di cui non sapevo nulla, sono andato in chiesa, ho letto "Il libro dei mormoni", ho parlato con alcuni dei loro vescovi. Dopo il film tutti pensavano che io fossi un mormone e che non ci fosse stata nessuna interpretazione, una cosa che ancora oggi considero un complimento. Successivamente ho interpretato un vice sceriffo, che è anche un serial killer, in una cittadina dello Utah. Il film si chiama Brigham City.



SS: In questo periodo, mentre lavoravi come attore, continuavi a scrivere?



Stavo lavorando su questa sceneggiatura, Tres y medio, che è nata grazie all'amicizia con Maya, alla mia ossessione con lo scrivere e con scrittori come William Blake, Arthur Rimbaud, Henry Miller e tutte queste cose naturalmente unite con l'immaginazione. E' un intenso viaggio attraverso l'America, nelle profondità di Tjuana nel Messico. Ma soprattuto esplora l'idea che noi siamo i creatori della nostra stessa realtà. Infatti era un'altra di quelle folli coincidenze perchè non avevo parlavro con Maya da un anno e mezzo. Le ho telefonato per dirle della sceneggiatura in cui stavo scrivendo il ruolo di protagonista per lei, pensando che lei fosse ancora a Londra studiando recitazione. Ma lei era in Italia e stava girando La balia di Marco Bellocchio. E in tutti e due i film lei ha un figlio che non ha padre.



SS: Che rapporto hai con Los Angeles?



Il panorama, inquinamento escluso, è stupendo, le montagne, l'oceano, il deserto è a due passi. Questo mi ha salvato perchè potevo andare sulle montagne per fuggire dalla "malattia" che è la vera Los Angeles, così falsa da fare paura. Ho letto un libro di Annette Insdorf, credo si chiami "Double Life, Second Chances" su Kieslowski. Quando l'autrice gli chiede dove avrebbe girato ogni film della trilogia, il paradiso, il purgatorio e l'inferno. Lui ha risposto che per i primi due non sapeva ancora scegliere un luogo preciso, ma sapeva con sicurezza che Los Angeles è l'inferno. E' una città che cambia le persone. Le persone non si parlano veramente, non c'è sostanza. E per quello che riguarda il mondo del cinema. Beh, nessuno conosce dei personaggi come Kieslowski. Alcuni dei produttori con cui ho parlato mi hanno consigliato più di una volta di venire in Europa.


SS: Quando hai capito che volevi essere un regista?



Avevo scritto un ruolo per me in un film che doveva essere girato nello stato di Washington. Ma il regista non aveva capito la sostanza, la struttura, i personaggi del film. Io non avevo la confidenza di poter dirigere un film. Ma dopo questo episodio ho capito che avrei potuto e dovuto farlo. Leggevo molto sui registi, per esempio Coppola, Scorsese, Cassavetes, Kieslowski, Tarkovsky, senza sapere veramente di volere diventare un regista. Ho cercato di fare partire il progetto di Tres y medio e ne ho parlato con Andrea Di Stefano di uno dei personaggi del film. Dopo che lui mi ha visto entusiasta della storia mi ha detto: "Non devi recitare, devi prendere le responsabilità e dirigerlo". E queste cose sono continuate a succedere fino a quando non avevo più possibilità e sono stato obbligato a dirigere.



SS.: Come è nata l'idea My Father's Garden?



My Father's Garden era fondamentalmente un test per me stesso per vedere se volevo veramente dirigere e se ne avevo bisogno e se ne avevo le capacità. Avevo precedentemente parlato con Andrea Paris della Ascent Film, di Tres y medio, che voleva aiutarmi a realizzarlo e gli ho detto che dato che era un progetto molto complicato, volevo fare un lavoro più intimo e gli ho raccontato la mia idea di realizzare un film con pochi soldi, centrato su Maya e vagamente tratto dalla sua vita e che avremmo girato in digitale. Cassavetes è stato una grande ispirazione perchè sapevo che con Maya, con una forte idea e con una solida "location", avremmo avuto qualcosa di molto forte e originale.



SS: Parlaci di My Father's Garden



My Father's Garden è la storia di una donna che non ha mai incontrato suo padre e scopre che sta morendo in un ospedale in un piccolo paese della Francia meridionale. Arriva alla stazione dove la viene a prendere un'infermiere che la lascia in una casa, che nessuno sa di chi sia. Maya pensa che lei sarà sola, così da poter essere preparata per incontrare suo padre. Ma ben presto lei scopre di non essere sola. Ci sono due personaggi molto strani che vagano per la casa. Sono reali? O allucinazioni della sua psiche tormentata? Capisce che deve andare e confrontarsi con suo padre per la prima volta. E' un film ricco di atmosfera, dove il silenzio ha un ruolo molto importante.



SS: Come era lavorare con Maya?



La cosa bella del nostro rapporto è la fiducia che si è instaurata tra di noi. Non ho fatto a sapere a Maya il finale della storia. Lei sarebbe entrata in uno spazio non sapendo quello che sarebbe successo. Fin tanto che l'attore non "si guarda", avrai da parte una reazione vera. Con Maya non ho mai incontrato un attore con un'incredibile abilità di lasciarsi andare e di "aver fiducia del momento". Non abbiamo mai discusso dei risultati. A volte per esempio, nell'ultimo momento tra Maya e Roberto (Zibetti), che era perfetto nel ruolo dell'"uomo", la reazione di Maya è così specifica e vera ed è proprio quella che avevo in mento, ma sapevo di non poterle chiedere di ridere e piangere istericamente. Ho fatto del mio meglio per creare le circostanze emotive e lei ha fatto esattamente come volevo. Maya è straordinaria!!!



SS: E il tuo prossimo progetto?



Come ho già detto, ho scritto Tres y medio, ed è stato appena tradotto in italiano. Voglio continuare a lavorare con Andrea Paris, che lo produrrà, ma avremo bisogno di produttori americani. Sarà un lungometraggio e lo dirigerò in pellicola. Maja interpreterà il ruolo della protagonista. Ma ho appena finito di riscrivere un progetto che mi sta molto a cuore, Leaving the Cape, una storia di un ragazzo bianco che cresce nel Sudafrica durante l'apartheid e che racconta il suo risveglio delle sue radici razziste, quando la sua famiglia immigra in un'America ugualmente razzista.

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