VENEZIA 69 – “The Company You Keep”, di Robert Redford (Fuori concorso)


Questo Redford potrà sembrare ad alcuni didascalico, paternalistico. Ma si pone in rapporto ai punti di vista, alle domande, al mondo con una problematicità che la stragrande maggioranza del cinema contemporaneo non ha neppure il coraggio di immaginare. Si muove sulla terra, nel cinema, nello spazio di un’inquadratura con tutto il peso della propria immagine, ma anche con la capacità magnifica di fermarsi, annullarsi, eclissarsi, sacrificarsi per un’idea, un’intuizione, un sentimento, un amore

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the company you keepSiamo tutti morti. Ma qualcuno è resuscitato”. La voce cavernosa, strascicata di Nick Nolte, ai limiti ormai del comprensibile, non lascia dubbi. The Company You Keep è un film di sopravvissuti, di reduci, che provano ancora a dare un senso alle loro azioni dopo la fine del mondo. Una galleria d’icone andate, la Sarandon, Nick Nolte, Julie Christie. Lo stesso Redford, ovviamente. E il modo in cui entra, o meglio rientra, in scena la dice lunga. Prima il dettaglio di alcune foto “d’amore”. Eppoi un dialogo normalissimo, tenerissimo, con la figlia poco più che bambina. L’immagine di un tempo e la realtà del quotidiano. Un breakfast in America, che mostra in un istante l’umanità, la malinconia e la dolcezza di questa gente comune vestita a lutto, inchiodata agli spettri del passato, ma ancora ostinatamente capace di credere in una persistenza, di immaginare un futuro oltre la perdita. In questa dimensione dannatamente umana le azioni contano, è vero, gli eventi hanno un senso nel determinare il corso della Storia, delle storie. Ma sono ancor più i rapporti, i cuori, le anime a disegnare la trama fondamentale delle cose. C’è chi crede nel fato, chi nei rapporti di produzione. Ma è la gente, siamo noi a fare la storia, altrettanto, se non di più, come dice il professore Jed Lewis (Richard Jenkins) ai suoi allievi. E perciò è sul come eravamo e su ciò che siamo che il cinema ha il compito di posare il suo sguardo rispettoso, mai abbastanza trasparente.

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the company you keepRedford sembra girare un altro thriller liberal, un magnifico film anni ’70 alla Pollack o alla Pakula. La storia è quella di Jim Grant, un tranquillo avvocato di Albany, New York. Ha da poco perso la moglie in un incidente d’auto ed è costretto a prendersi cura da solo della figlia undicenne, Isabel. In realtà Grant nasconde un passato turbolento. Da trent’anni vive sotto falso nome. In gioventù era stato un attivista anti Vietnam, appartenente al gruppo radicale Weather Underground, protagonista negli anni ’70 di una serie di azioni terroristiche. In una di queste, una rapina in banca, era rimasto ucciso un agente. A far venir fuori la vera identità di Grant è un giovane ambizioso reporter dell’Albany Times, Ben Schulberg, incaricato di indagare sul Weather Underground dopo l’arresto di un’altra attivista, Sharon Solarz. D’un colpo Grant si ritrova braccato dall’FBI e dai media. L’unica speranza è convincere un’altra compagna dei tempi andati, Mimi Lurie, il suo grande amore, a scagionarlo da ogni accusa. Il genere e la Storia, l’entertainment e l’impegno.

Mainstream purissimo, cristallino. Eppure è proprio sotto il punto di vista del genere che The Company You Keep si ostina a non funzionare mai, si arena nelle secche di un dialogo predominante, di un’aritmia cardiaca letale. La tensione si risolve in un paio di scene d’azione e in un inseguimento ‘indeciso’ nei boschi del Michigan, dove Redford mostra ancora una forma smagliante, ma a un certo punto rinuncia a correre. In un istante, il plot è azzerato, annullato dalla definitiva affermazione di una scelta etica e di un atto d’amore. Il cinema dei vecchi arnesi scricchiola. Ma per mostrare agli altri, alle nuove icone, la propria necessaria densità. Perché quello che importa è, come sempre, la definizione di una traiettoria dei rapporti che abbracci a un tempo il privato e il politico, l’intimo e il sociale, la densità dei sentimenti e un’interpretazione dell’orizzonte lungo il quale si muovono le azioni e le scelte degli individui.

 

the company you keepIn fondo, il cinema di Redford non è mai cambiato. Quella capacità costante di porsi in ascolto della polifonia complessa di un’America fibrillante, quelle famiglie alla ricerca di un’unità perduta, le crisi e le risalite dei personaggi, il cinema come supremo tribunale di un popolo. Dai tempi di Ordinary People, o meglio, ancor prima, dai tempi in cui come attore ridefiniva l’immaginario e le tendenze del cinema liberal, è sempre la stessa storia. Ed è proprio con quei tempi, con la sua icona fin troppo definita che Redford si ritrova a fare i conti. Cosa rimane di quell’esperienza, di quel cinema? Cosa vuol dire, oggi, portare ancora il peso della propria visione come fosse una croce? Avere un’idea, una prospettiva, eppur non rifuggire la realtà di un tempo inesorabilmente passato? Cosa vuol dire essere fedeli a se stessi, a un’idea suprema di libertà, in un mondo il potere, l’economia e lo spettacolo coincidono in un sistema distorto? Un mondo in cui i media non sono lo strumento della verità, dove le carte in tavola sono cambiate, le regole sono saltate? Come si può continuare la lotta, quando bisogna dar conta agli altri, ad affetti irrinunciabili? Una causa può valere il prezzo di un amore? In poco più di due ore Redford condensa, con la semplicità apparente di un classico, un intero universo etico, gli interrogativi morali del nostro (stare al) mondo. E la sceneggiatura, i dialoghi magnifici di Lee Dobbs (da un romanzo di Neil Gordon) sono solo la pelle, la superficie sotto cui si muove il suo sguardo disincantato, ma attento, che mostra ovunque i segni di una saggezza ferita, offesa, schiaffeggiata, ma anche la caparbia affermazione della possibilità di una resurrezione dopo la morte, dopo una, cento, mille, un milione di morti quotidiane. Questo Redford potrà sembrare ad alcuni didascalico, paternalistico. Ma si pone in rapporto ai punti di vista, alle domande, al mondo con una problematicità che la stragrande maggioranza del cinema contemporaneo non ha neppure il coraggio di immaginare. Come Clint Eastwood, pur da direzioni opposte, si muove sulla terra, nel cinema, nello spazio di un’inquadratura con tutto il peso della propria immagine, ma anche con la capacità magnifica di fermarsi, annullarsi, eclissarsi, sacrificarsi, per un’idea, un’intuizione, un sentimento, un amore. È un padre, è vero. Ma non ha da insegnare alcuna verità, perché la verità è lì, riposa nei fatti e nel cuore delle persone. Semmai un metodo. Ed è questo il senso del rapporto di Grant, di Redford con il giornalista d’assalto, con Shia LaBeouf, una sorta di specchio di sé trent’anni dopo. Avete ancora delle regole? chiede Redford. Ecco, il punto. La regola, la fedeltà. Al proprio passato e soprattutto al proprio presente, alle idee e agli affetti. La possibilità di poter guardare gli altri negli occhi e rivendicare la legittimità delle scelte. E la sensibilità di prendere per mano i propri figli, per dar conto, una volta per tutte, delle proprie ragioni e dei propri errori.

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