ZEBRA CROSSING. Is it future or is it past? Tre voci del Tecnosciamanesimo
La pratica tecnosciamanica nell’incrocio tra arte e natura. Zebra Crossing ha intervistato al riguardo uno scrittore, un’attrice e un dj: Alessandro Vullo, Elena Borgna e Felipe Carrera
Se l’arte è anche un modo di andare oltre la dimensione “normale” della realtà, gli artisti sono quei traghettatori che, come diceva il compianto Marco Maria Gazzano, ci aiutano a passare da una riva all’altra, navigando su acque tempestose fatte di emozioni e riflessioni che spesso non vorremmo né provare né fare. Per farlo essi usano le tecniche che più preferiscono, le quali possono variare in uno spettro che va dalla prestazione di apparati giganteschi (in cui il cinema è uno dei vertici) all’uso minimale della tecnica per ridare il massimo del significato. Abbiamo già affrontato la capacità del regista cinematografico di portarci in altre dimensioni analizzando un piccolo video di Lynch, regista che definimmo “tecnosciamano”.
Da tempo Zebra Crossing parla di cinema come atteggiamento mentale, anche inconscio, ritrovando questa disciplina nella mente di chi pratica altre discipline artistiche e culturali. Quest’estate abbiamo incontrato tre esploratori la cui pratica ci pare vada molto nella direzione del tecnosciamanesimo di questo inizio millennio, inizio dell’era dell’acquario e dell’era digitale. La pratica di questi personaggi non è cinematografica ma ne vediamo e sentiamo una potente “cinematicità”, grazie alla loro capacità di vedere mondi “altri” e a farci entrare in essi attraverso dispositivi e modi semplici e antichi: la letteratura, la danza e il teatro.
Alessandro Vullo ha da poco pubblicato il suo primo romanzo “Sette Lune” riguardo il suo viaggio di sei mesi in Messico. Il libro, edito da Prospero Editore, viene presentato in questo periodo in giro per l’Italia. Vullo è un ricercatore multidisciplinare ed ex fotografo con alcune pubblicazioni di reportage all’attivo. Ha da poco concluso un periodo di lavoro e ricerca con la Tribù Sanacore e continua ad organizzare incontri focalizzati sullo scambio di saperi e crescita personale nella sua Sicilia come in altre regioni. La sua prossima meta è il Colorado.
(foto di @davidart.ph)
Alessandro quale è il tuo rapporto col cinema?
Il mio è un rapporto di amore a singhiozzo. Non sono mai riuscito a dedicare parecchio tempo al cinema, ma l’ho amato molto, ed è stata una fonte di ispirazione enorme per il mio lavoro precedente, cioè il fotografo. Anzi spesso ho fatto ricerche icononografiche facendo screenshots delle sequenze che amavo, anziché usare progetti di altri fotografi. Comunque se prima guardavo più film, ora ho sviluppato un disturbo dell’attenzione che non mi facilita stare fermo e concentrato a guardare un film.
Cosa è uno sciamano per te?
La parola più inflazionata degli ultimi due, tre anni! È una parola che ascoltai da piccolo per la prima volta giocando a D&D, mentre oggi è un termine che mi piace sempre meno. Comunque, come ho studiato ma soprattutto vissuto, resta quella figura che ha una certa rilevanza spirituale dentro un gruppo tribale. Egli usa osservazione e integrazione dei poteri della natura per poter stare prima bene lui e poi portare la medicina dentro il gruppo tribale cui appartiene. Lo sciamano riesce ad attingere alla fonte del potere naturale. Tuttavia tutti gli uomini medicina o le donne medicina che ho incontrato nella mia vita non mi hanno mai detto di essere “sciamani”, mentre in Occidente oggi lo sciamano è un concetto sempre più collegato ad un’idea di esotismo. In verità c’è molta magia e potere anche in zone come Caltanissetta dove sono ora, senza andare in Amazzonia. Per esempio qui in Sicilia c’è un vecchietto di 73 anni che viene chiamato “lo sciamano dei monti Sicani”. Egli sa manipolare erbe ed energia di qualunque tipo, ma se gli si chiede se è lui “lo sciamano” lui ti dà una sberla e si incazza e poi dice “ma chi è sto sciamano? io sono Aldo!”.
Elena Borgna è una antropologa, regista e attrice attiva col gruppo di teatro sperimentale “Teatro selvatico” in Piemonte. Fa continua ricerca con questo gruppo, attivando laboratori e seminari. Il suo spettacolo “Voci dal Bosco“, attualmente in tour, ci riporta dentro i boschi per farci capire meglio quanto siamo figli della natura.
Elena quale è il tuo rapporto col cinema?
A me piace moltissimo, sia andare al cinema che guardarli per conto mio. Non sono una nerd del cinema perché non mi ricordo gli autori ma mi piace. Generalmente però non vado moltissimo al cinema perché per la maggior parte del tempo sono in giro per fare teatro.
Quanto c’è di “sciamanico” in uno spettacolo teatrale in un bosco?
Sicuramente vorrei che ci fosse qualcosa… non ho mai cercato di spingere troppo questa cosa perché vorrei che restasse uno spettacolo teatrale che parla a tutti e deve farlo. Forse spingendo troppo il risultato potrebbe essere allontanante per certe persone. Sento bene che c’è una potenza nel fare uno spettacolo nel bosco; un modo particolare rispetto a farlo in teatro, dove il luogo deputato dell’azione è il palco e questo luogo deputato ti fa sentire protetto. In natura non c’è questo luogo di protezione e si è allo stesso livello del pubblico, quindi si è molto più esposti. Per questo nella pineta del bosco creo un cerchio di protezione a voler dire che quello spazio è sacro, cioè uno spazio in cui accade qualcosa, e io mi apro affinché questo accada. Altra differenza è la presenza di esseri viventi, dato che nel bosco ci sono effettivamente gli alberi. Quindi mentre si racconta quale è la loro vitalità, mentre sto raccontando degli alberi, li si può vedere. Il passaggio mentale dello spettatore è diretto, entra direttamente in quel flusso. Personalmente a volte sento gli alberi, a volte no. Infatti devo fare ancora un grande lavoro di connessione con loro… mentre faccio lo spettacolo li sento ma li potrei sentire molto di più. Invece la mia attenzione oscilla e mi perdo in cose più umane, e a volte sono più col pubblico. Quindi non sono sempre dentro la connessione con gli alberi ma quando questo succede, quando l’attore è connesso con l’albero, il pubblico lo sente, e può pensare che è possibile veramente connettersi con gli alberi.
Felipe Carrera è un maestro yoga e maestro elementare attivo come dj per serate di Ecstatic dance (danza consapevole). La sua attività si svolge durante l’anno principalmente a Milano, e nel mentre porta avanti anche la creazione annuale dello WAO festival estivo, per il quale gestisce la healing area.
Felipe quale è il tuo rapporto col cinema?
Non sono mai stato un cinefilo, ma mi piace molto l’idea di mettermi a vedere un film. Infatti non ho schermi in casa ma ho un proiettore. Gli schermi in casa mi sembrano un riempitivo di silenzi e di spazi, mentre un proiettore deve essere acceso per fare quella cosa in particolare. L’ultima volta che sono andato al cinema in sala sono andato alla sala Energia di Melzo. Me ne avevano parlato per l’impianto surround, e l’ho fatto più per l’esperienza. Personalmente penso che il cinema del futuro sarà sempre più quell’evento svolto nei salotti col proiettore.
La danza può essere un veicolo per un “oltremondo”?
Mi piace molto la parola “oltremondo”. È un’espressione che vorrei usare da ora in poi. Mi piace perché è un “luogo-nonluogo”, un “kairos” cioè uno spazio senza tempo, un tempo senza tempo, in cui tutto è fermo e tutto si muove. In cui tutto ciò che saresti potuto diventare non esiste. Magari neanche tutto ciò che sei stato. Perché è un continuo divenire. Sei tu e basta nella forma più autentica. L’oltremondo è il sé. Il nostro sé nella forma più autentica. Grazie al sé, grazie al contatto col sé (c’è chi lo chiama “maestro interiore”) si accede all’oltremondo. Non puoi accedere all’oltremondo con i vestiti della mente. con o senza sostanze. Si può accedere usando la danza consapevole, perché la danza è una medicina, intesa come sostanza. Non la si prende fisicamente, ma ciò che si innesca e si attiva dentro di noi è la stessa cosa. Come la meditazione ad alti livelli. La danza ad alti livelli è come un fungo allucinogeno. Magari senza le allucinazioni, ma è un bene perché quelle distolgono dal lavoro vero da fare, il lavoro di presenza. La danza consapevole fa stare qui, nel momento presente.
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