Ai nostri amori. Per Maurice Pialat

maurice pialat

C’è in Pialat una sorta di equivalenza tra amore e cinema. Entrambi hanno la forma dell’evento che per eccellenza non può essere determinata prima. Il film è così il risultato di una lotta e di una passione, fatto di salti improvvisi, di scansioni temporali proprie. A 10 anni dalla scomparsa, un ritratto del grande regista

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maurice pialatCelebrazioni, ritmici rituali sempre un po’ imbarazzanti. Come se ricordare qualcosa sia un gesto consegnato solo al ritmico passare degli anni o dei decenni (dieci anni dalla nascita di, dalla morte di). Superato il primo momento però, la celebrazione diventa anche un’occasione di pensiero, di riattivazione di uno sguardo, in un certo senso una sfida. Sì, una sfida, perché parlare, come in questo caso, a dieci anni dalla morte di Maurice Pialat significa evitare a tutti i costi che le parole “celebrative” seppelliscano la forza scardinante ed eccessiva delle immagini di un regista che è sempre sfuggito alle celebrazioni e alle etichette. Riguardare le immagini di film come Loulou, Ai nostri amori, Police o Le garçu significa entrare all’interno di una pratica lacerante del fare cinema. Un tour de force che non può non rivelarsi in quelle immagini, nella tensione dei corpi che le abitano, nelle loro scelte radicali, nelle tensioni amorose e passionali che ne costruiscono la potenza.

ai nostri amoriNon ci interessano le leggende intorno a questo cineasta scomodo, radicale nel suo pensiero e nei suoi gesti; non ci interessano le sue idiosincrasie, i suoi odii (la “cricca piccolo-borghese della Nouvelle Vague”), i suoi sbalzi d’umore, i suoi giudizi taglienti verso il cinema, il sistema, persino verso i suoi film, spesso giudicati più per le loro mancanze che per i loro meriti. No, ci interessa un regista che rimane o, meglio, uno sguardo che rimane nei suoi film proprio perché radicale.

Scriveva Catherine Breillat che: «Ogni film di Maurice è il luogo di una passione. Questa passione è un calvario. Talvolta un supplizio divino». Le parole sono giuste, colgono nel segno. Ciò che ci interessa sta qui, in questa identificazione tra  gesto filmico e sofferenza, passione nel senso quasi di supplizio, eppure divino, percorso capace di uscire fuori da ogni attesa, capace di tirare fuori da ogni attore qualcosa di mai visto, di mai sentito o provato. Il lavoro sul set è per Pialat fondamentale, da questo punto di vista. Il set è il luogo primario dove non solo si può e si deve spingere al massimo la capacità degli attori di uscire fuori da loro stessi, dai propri schemi mentali e professionali, ma dove l’imprevisto accade, dove il reale irrompe inatteso, dove lo stesso regista provoca situazioni e “incidenti”. Quasi ogni ripresa, ogni inquadratura diventi il risultato di un evento spinto fino all’estremo e ripreso in modo tale da mostrare proprio questo, il suo non essere mai previsto fino in fondo.

maurice pialat e gérard depardieuCiò che importa allora è che il film sia il risultato di una lotta e di una passione, fatto quindi di salti improvvisi, di scansioni temporali proprie; il montaggio in Pialat può allora essere la forma, di film in film, attraverso cui ognuno di questi “eventi” trovano un luogo, si collocano in in uno spazio che ne rilancia l’indeterminazione, l’incertezza. La frammentazione dell’io dei personaggi in La gueule ouverte si concretizza nei lunghi piani sequenza che scandiscono il film, così come gli stacchi netti dopo ogni sequenza si ritrovano anche in altri film, come L’amante giovane o Ai nostri amori, a testimoniare l’idea di un racconto fatto di blocchi che non necessariamente compongono un insieme armonico e chiuso in se stesso. C’è, in questo modo di procedere un’imprevedibilità che non vuole essere affatto intellettuale, cerebrale. Questo lavoro del set prima, questa frammentazione del racconto, questi legami “deboli” (direbbe Deleuze) costituiscono quindi il luogo di un cinema imprevisto, mai completamente controllato. Non a caso, perché l’ossessione di Pialat è proprio l’evento per eccellenza, l’evento incontrollabile e indeterminabile (ciò che quindi il montaggio non può chiudere, non può determinare fino in fondo): l’amore.

C’è in Pialat una sorta di equivalenza tra amore e cinema. Entrambi hanno la forma dell’evento, dunque la forma che per eccellenza non può essere determinata in anticipo. Un film come un amore non possono essere predetti, determinati in anticipo. Anche quando il regista francese, nell’ultima fase della sua carriera, sembra costruire un cinema più controllato, memore di una tradizione di “genere” – Police, Van Gogh, Sotto il sole di Satana: il poliziesco, il biografico e il letterario  – anche qui l’immagine non è mai netta e unilineare, ma i blocchi narrativi si succedono, sfumano quasi l’uno nell’altro, immersi (come nel caso di Police) in una sorta di spazio notturno uniforme dove solo la disperata bellezza di soggetti-limite (Gérard Depardieu e Sophie Marceau) illumina quello spazio di incertezza radicale. È in questo principio di incertezza, in questa folgorante identità tra cinema e amore che Pialat è nostro inattuale contemporaneo.

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