Andrej Tarkovskij – scolpire l’infinito: il saggio di Patrizia Salvatori

Il volume postumo della studiosa recentemente scomparsa prova a raccontare il regista sovietico attraverso l’individuazione di alcuni capisaldi teorici della sua poetica

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È stato presentato lo scorso 17 marzo al Cineclub Alphaville di Roma il libro Andrej Tarkovskij – scolpire l’infinito; testo dedicato al cinema del regista sovietico e nato dalla volontà della curatrice Liliana Cantatore di dare nuova forma al ciclo di lezioni tenute dalla studiosa Patrizia Salvatori, fondatrice del circolo, recentemente scomparsa. Una dedica “al quadrato” dunque, nonché secondo saggio della Collana “I Fondamentali” dopo Pier Paolo Pasolini. Sulle barricate dell’anima, firmato ancora da Salvatori ormai quattro anni fa.

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Il libro, offerto “come dono a chi legge” da parte di Cantatore, prova dunque a ricostruire traiettorie e significati dell’opera del cineasta di Zavrove, ripercorrendone vita e highlights di carriera e soffermandosi su quegli aspetti e su quei dettagli capaci di tracciare una sorta di fil rouge della poetica dell’autore. L’ordine cronologico scelto per l’esposizione, che non manca di segnalare le principali tappe dell’esistenza extra-cinematografica di Tarkoviskij, prende dunque le mosse dal suo percorso di studi, analizzando l’importanza della formazione “geologica” del regista in considerazione del ruolo da protagoniste che terra, acqua e vita si sarebbero poi ritagliate all’interno delle sue pellicole.

Il mondo del grande schermo, si ricorda d’altra parte nel testo, è una realtà con la quale il regista viene in contatto solo dopo l’iscrizione all’Istituto Statale Superiore di Cinematografia di Mosca; non a caso centro propulsore de Gli uccisori (1956), corto noir con accenni esistenzialisti girato insieme ai colleghi Andrej Koncalovskij e Alexander Gordon, e Il compressore e il violino, mediometraggio di fine corso datato 1960 (a cui Salvatori ha tra l’altro dedicato un racconto/spin off intitolato La piccola mela), all’interno del quale emerge già quella concezione dell’arte che sarà poi sviscerata dai principali pilastri della sua filmografia – oltre che in Scolpire il tempo, pubblicato postumo nel 1988, dello stesso Tarkoviskij (“è fondamentale che l’artista sia supportato dal popolo e che resti visibile al popolo”).

Quello di Patrizia Salvatori è tuttavia un lavoro che procede anche per nuclei tematici e che, a partire dall’esordio nel lungometraggio rappresentato da L’infanzia di Ivan (1962), indaga diversi incipit ed epiloghi dei capolavori del cineasta, selezionando con cura immagini e sequenze utili a comunicare determinati capisaldi teorici del regista. Dalla funzione del potere in Andrej Rublëv (1966), che “ha il diritto di esistere solo per aiutare gli uomini a diventare coscienti della propria identità e della propria creatività”, all’importanza dello sguardo interiore di Stalker (1979); passando per i ragionamenti sulla memoria offerti da Solaris (1972) e arrivando all’accusa al Rinascimento esposto tra le pieghe di Nostalghia (1983), che “ha posto l’uomo al centro dell’universo ed è appunto questo che ha fatto dell’universo un universo vuoto, senza più sacro e senza Dio”.

C’è spazio anche per le analisi di Lo specchio e di Sacrificio, opera ultima dell’autore uscita proprio nell’anno della sua prematura dipartita. E c’è spazio soprattutto per “La moviola e la panchina”, ultimo capitolo del saggio con l’intervista condotta da Salvatori a Donatella Baglivo, montatrice e regista italiana e collaboratrice dell’artista sovietico negli ultimi anni della sua carriera – al quale Baglivo ha tra l’altro dedicato il cosiddetto Trittico Tarkovskijano. Una conclusione che definisce l’essenza di Andrej Tarkovskij – scolpire l’infinito nell’intersezione di tre appassionate voci femminili  a cavallo di due secoli. Nel ricordo e nell’omaggio di un regista che, evidenzia la curatrice, “ha saputo pensare per se stesso e per noi in termini di infinito”.

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