Averroès & Rosa Parks, di Nicolas Philibert

Messa in scena lucidissima della definizione stessa di piano d’ascolto nella costruzione di uno stile, dell’unica altezza di sguardo possibile. BERLINALE74. Berlinale Special

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Dopo l’Orso d’oro ricevuto proprio qui a Berlino, Nicolas Philibert continua ad indagare l’attività psichiatrica dell’ospedale Esquiral al centro di Parigi, e delle sue diverse unità. Dopo L’Adamant, stavolta è il turno dei due plessi che danno il titolo al documentario – seguirà un ulteriore film, in un progetto complesso di scavo profondo all’interno dei meccanismi della “cura” che appare già destinato ad ergersi come pietra di paragone attuale e futura sul tema.
Come già notavamo allora, l’approccio di Philibert alle storie dei pazienti che incrociano l’obiettivo della sua mdp ha letteralmente del miracoloso: in confronto all’ode all’attaccamento alla vita dell’episodio precedente, Averroès & Rosa Parks si presenta subito come un documentario votato ad un rigore assoluto, una serie di sedute d’analisi e di assemblee aperte tra i medici e le persone che frequentano le strutture, inquadrature strette sui primi piani di volti che si rivelano mappe di rughe, ferite ed occhiaie che disegnano mondi interi, racconti di rabbia, impotenza, solitudine. C’è chi è convinto di essere ostacolato dallo Stato per la sua religione secondo teorie tutte proprie, chi ha tentato il suicidio, chi rivede i parenti morti nei compagni di degenza. Storie !comuni” dell’umanità che attraversa le istanze delle patologie legate alla salute mentale. Quasi tutti citano libri, concetti letterari, politici e filosofici, nomi di grandi scrittori.

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Come riesce Philibert a mantenere l’equilibrio sottilissimo tra la testimonianza e l’empatia, l’attaccamento a queste storie e la narrazione del dolore? Ecco, se il film precedente era in qualche modo anche una questione di spazi, stavolta Averroès & Rosa Parks è tra le altre cose pure una lezione sui tempi, sull’esposizione al malessere di queste esistenze, su quanto tenere un’inquadratura, una sequenza, quando fare arrivare uno stacco – nei suoi 143 minuti, il documentario di Philibert è uno sguardo nel precipizio di istanti in cui le interferenze fuoricampo, il cellulare dei dottori che squilla, le urla fuori dalla porta, creano come delle sacche di sospensione in cui sarebbe facilissimo uscire “fuori” dalla tensione costruita fino a quel momento. E invece tirare il fiato appare impossibile, ogni elemento, compresa la mdp che resta immobile sul quadro fisso, rimane in attesa che riprenda il flusso di memorie, riflessioni, invettive e fantasie degli utenti.
E’ su questo confine che Philibert costruisce il senso inedito del suo metodo osservazionale, quel clic dovuto all’immersione compressa in queste stanze per cui a furia di ascoltare la realtà vista con gli occhi dei protagonisti, iniziamo a riconoscerne dei tratti precisi, una ricostruzione delle regole di funzionamento del mondo che appare evidente solo se si fa attenzione agli indizi presenti nelle lunghe risposte dei pazienti alle domande degli psichiatri.
Una messa in scena lucidissima della definizione stessa di piano d’ascolto nella costruzione cinematografica, dell’unica altezza di sguardo possibile in un lavoro come questo, della capacità di attraversare interi universi senza aver bisogno di abbandonare mai l’essenzialità figurativa di uffici e pareti bianche a cui è votata la forma di questi ritratti d’amore.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
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