#Berlinale68 – 3 Days in Quiberon, di Emily Atef

Emily Atef presenta in concorso un film sull’ultima intervista rilasciata da Romy Schneider in una clinica riabilitativa, tra una grande voglia di vivere e l’ambizione professionale.

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La cosa che maggiormente impressiona nel film in 3 Tage in Quiberon, il film tedesco di Emily Atef in concorso, è la somiglianza di Marie Bäumer, che ne impersona il ruolo, a Romy Schneider, raccontata attraverso l’ultima intervista rilasciata dalla grande attrice tedesca. Una star imprigionata dentro una fragilità permanente e piena di sensi di colpa per aver trascurato, a causa del lavoro, di fare da madre al figlio David. Il volto segnato dall’alcool è solo uno degli indizi della crisi, lo strumento per canalizzare un dolore diventato extracorporeo in una percezione del mondo destabilizzato e sottocutaneo considerando la propagazione di un tumore che la obbigherà all’asportazione di un rene.

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Il film, girato interamente in bianco e nero, sostenuto da un repertorio prevalentemente composto di musica classica, esplode in un eccesso lirico quasi a voler fornire una giustificazione ai modi sopra le righe innestando il motore della vicenda nella figura di Hilde, amica d’infanzia dell’artista, che ne diventa il nume tutelare, salvo ripiegare in una piena assunzione di responsabilità accendendo i riflettori su un orientamento autodenigratorio. Una base centrale chiarissima: tre giorni passati in un luogo di villeggiatura in un piccolo paese della Bretagna in una clinica di riabilitazione dotata di tutti i confort e il mare dove la Schneider rilascia l’intervista. Oltre il sostegno di Hilde, gli altri protagonisti sono un ambizioso giornalista impegnato a far carriera, accompagnato da un fotoreporter d’antan, anche lui legato intimamente alla Schneider.

Il dubbio solenne viene sollevato nei metodi d’indagine utilizzati per ottenere la notizia, nell’evidenziare la mancanza di scrupolo nel toccare dei nervi scoperti, l’esistenza di un codice deontologico che nella babele odierna dell’informazione, caratterizzata spesso da pressapochismo, è assente nei fatti, in un circo dell’informazione dominato dall’invadenza. Resta il tentativo di ambientare nel passato quella barriera tra il pubblico ed il privato che si stava polverizzando nella spinta a raggiungere le vette del successo, un’ambizione presente in ogni aspetto del star system, dai semplici attendenti tecnici al vip disponibile a rendersi oggetto del desiderio del pubblico e forse ancora poco coscienti di partecipare ad un gioco al massacro.

Probabilmente l’elemento di maggiore riflessione risiede solo in apparenza nella cinica trafila di domande che andranno a comporre l’intervista. Anzi queste, nel loro tono d’indagine, diventano qualcosa di liberatorio, da confessione estorta a rito purificatorio di un’analisi che nel liberare i fantasmi del rimosso impara ad avere meno paura delle proprie debolezze.

MV5BNjRiNWFmM2ItOTNkZi00ODlhLWFmN2YtNjYwNGY0OGE2YTY3XkEyXkFqcGdeQXVyMDA5NjIzMg@@._V1___1519129161_213.61.231.58E lascia all’intervistato una possibilità di indirizzo, seppur minima come nel caso della Schneider resa influenzabile dalle insicurezze. Nello sguardo osceno della macchina fotografica, posta tra le mani di una persona amica per accentuarne il paradosso, resta invece concentrata tutta l’angoscia nel perdere ogni limite di controllo sulla privacy, ed ogni momento, ogni respiro, ogni smorfia catturata in maniera replicante restano esposti nel loro ideale abbandono alla mercè di qualsivoglia occhio indiscreto. Esseri mutanti nati senza cordone ombelicale.

L’anno dopo i fatti narrati, in maniera più o meno veridica, l’attrice perderà la vita, poco dopo la morte del figlio David avvenuta pochi mesi prima. Nel film al tormento si aggiunge sicuramente una grande voglia di vivere soggetta ad un andamento fortemente ondulatorio e probabilmente in parte causa involontaria della insoddisfazione della’attrice.

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