#Berlinale70 – Malmkrog, di Cristi Puiu

Puiu radicalizza fino al limite il suo stile. Sembra vedere e controllare tutto Ma è come se per tre ore e mezza girasse intorno a un vuoto, un buco nero dell’immagine, dello spazio e del tempo

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In principio era il Verbo. E in Malmkrog si parla tanto, troppo. Si discute di religione, di guerra, di politica ed è tutto un raffinato argomentare di posizioni filosofiche, teoretiche, morali ed estetiche, tra paradossi logici che scivolano nell’arguzia verbale e oscillano tra la dimostrazione della Verità e il relativismo più assoluto, incurabile. Il Vangelo di Giovanni è tirato più volte in ballo, salvo che poi, quando ci si deve appellare alla lettera del nuovo testamento, si rimane sulle cronache del narratore più smaliziato ed esaustivo, Luca. Quasi a dire che delle storie non si può fare a meno. Ma dov’è davvero la storia? In quale angolo della casa si nasconde, nel budello di un corridoio, tra i giri delle scale, oltre quali porte? Sì, perché in Malmkrog, Puiu radicalizza fino al limite il suo stile, o meglio la posizione incomoda da cui guarda da sempre alle cose. Sembra vedere e controllare tutto con l’arroganza estrema del piano sequenza e tiene le sue scene ben oltre i momenti in cui i discorsi si perdono nel silenzio più imbarazzante. Ma è come se per tre ore e mezza girasse intorno a un vuoto, un buco nero dell’immagine, dello spazio e del tempo, una voragine della storia che mette in mostra la frattura insanabile tra le idee e i fatti. Basterebbe quell’inizio, con Madeleine che parla di Dio e si rivolge a qualcuno che non vediamo, nascosto ai margini di una finestra. Sentiamo la sua voce, come se bastassero solo le parole e i pensieri. Solo poi scopriremo che si tratta di Nikolai, il padrone di casa di questa “ultima cena” di un’aristocrazia esteuropea tanto evoluta da esser diventata ormai impalpabile.

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Puiu guarda alla fine dell’Ottocento e si rifà ai testi del filosofo e teologo Vladimir Solov’ëv, in particolare a I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo. Cinque nobili si incontrano in una tenuta di campagna e trascorrono il tempo secondo i rituali dell’etichetta: il pranzo, la cena, il tè (il russo, ovviamente, il migliore), il cognac… Sono due uomini e tre donne. Sono russi (siamo sicuri?), ma parlano francese (noblesse oblige), tranne in rari momenti. E a volte la loro discussione svela un’incertezza lessicale, si perdono nella traduzione, mancano un termine, sono costretti a ripeterlo. E non capisci mai se si tratti di un errore del personaggio o dell’attore costretto a una lingua che non gli appartiene. Ma fatto sta che Puiu lascia passare l’errore. Per non mandare all’aria il piano sequenza, probabilmente, ma anche per mostrare una sottile crisi nella tenuta dei ragionamenti, nei sofismi che si intrecciano e si sfidano a duello in un’assurda polifonia dostoevskiana (e pare che Dostoevskij si ispirasse proprio a Solov’ëv per il personaggio di Ivan Karamazov).

Sì, va bene, la natura del Cristo, il problema del male, la Resurrezione della carne, il percorso di salvezza da fare con Dio, l’idea d’Europa, la brutalità della guerra e la teoria incerta della nonviolenza. Ma alla fine cosa interessa davvero a Puiu e a noi delle idee di Solov’ëv? Magari il modo in cui ritornano al contemporaneo, ma non basta certo ambientare la vicenda a Malmkrog, un villaggio rumeno della Transilvania, per parlare della Romania di oggi. Perché il mondo che è là fuori comunque non appare, è sepolto nell’immobile candore della neve. Ma è proprio questo il punto. È proprio il modo in cui agisce e si muove ciò che sta dall’altra parte, nel margine buio, ciò a cui non sembra esser dato diritto di immagine e di parola e che, pure, fa sentire la sua presenza. Una voce, un richiamo, un canto, una musica. È una mano che porge un piatto, un’ombra improvvisa, il riflesso in una vetrina, qualcosa che sta dietro le porte, passa tra le stanze. C’è un senso di mistero e di inquietudine dietro quelle porte chiuse, una specie di minaccia che incombe. Come quei camerieri che si muovono e congiurano alle nostre spalle, anche quando cerchiamo di escluderli nel più stretto protocollo di un campo controcampo. Alla fine la realtà che preme si vede, irrompe. È una bambina che dal fondo del corridoio viene verso la sala da pranzo, verso di noi. Una cameriera la ferma giusto in tempo, per riportarla dall’altra parte. Non ha “senso” quella bambina, ma è ciò che ci interessa davvero in quell’istante. Qualcosa che interrompa la trama monotona, compatta e opaca dei dialoghi. Ed è come se Puiu sviasse sistematicamente la nostra attenzione da essi, a sancirne quasi l’irrilevanza, la capacità di incidere davvero. Non è la parola a fare la Storia, se non nel senso tutto orizzontale della superficie, la nebulosità diffusa dei ragionamenti, la confusione delle idee, il piedistallo delle posizioni, che dalla teoria passano alla sostanza delle distanze umane e sociali. Perché accada davvero qualcosa occorre un cuneo che sollevi e incrini la liscia superficie delle cose, un’azione, un incidente. Un colpo di mano, una rivolta. Eppure ancora una volta Puiu stravolge lucidamente l’ordine del discorso. La minaccia si materializza e l’inevitabile accade. Ma poi si torna indietro, come se nulla fosse stato. All’eternità immobile di un mondo già morto.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

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Il voto dei lettori
4.6 (5 voti)
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