Blog ILCIOTTASILVESTRI – Le incantevoli notti di Pordenone. Giornate del cinema muto n.41

Dal 1 all’8 ottobre la 41esima edizione del cinema muto di Pordenone ha analizzato le principale opere dell’epoca con la partecipazione di grandi critici, archivisti e registi

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La maggior parte dei festival prestigiosi brillano per il contenuto artistico dei film selezionati, ma c’è un appuntamento mondiale di serie A in cui è soprattutto il contenuto artistico della sala cinematografa a contare. Se si entra infatti – senza mascherina, distanziamento sociale e prenotazione, finalmente – nel teatro Verdi, affollata sede storica delle Giornate del cinema muto di Pordenone giunte alla 41esima edizione (1/8 ottobre), si troveranno fianco a fianco non solo i luminari, uomini e donne, della cultura cinematografica planetaria, i critici (pochi gli italiani, ma c’è Stefano Masi e Sergio Grmak Germani), gli archivisti, i restauratori, gli storici d’ogni continente, e quest’anno anche una copia di sublimi cinefili, il regista John Landis e la costumista e storica del costume Deborah Nadoolman Landis, ma anche i musicisti e i direttori d’orchestra che trasformano ogni appuntamento in un evento unico e irriproducibile. La versione più completa mai vista di The Unknown , lo sconosciuto, di Todd Browning, ci ha restituito in apertura del festival un’opera di modernità e potenza immaginaria devastante degna di un lavoro oltre l’horror di David Cronenberg, con una performance di Lon Chaney affidata a piccole variazioni Goldberg sul suo volto, dalla felicità più beata all’angoscia più disperata, di micidiale effetto, tanto da annullato qualunque effetto Kuleschov.

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Circo, Mondo gitano, Spagna, Tutti hanno i fazzoletti in testa. Contesa d’amore tra sollevatore di peso e Alonso, il lanciatore di coltelli. Obiettivo Nanon (Joan Crawford), bella ma imprendibile. Ha la fobia delle mani maschili, non vuole farsi avvicinare, meno che mai toccare. Il lanciatore di coltelli sembrerebbe prevalere. Infatti è senza braccia. Lancia con i piedi. Non può abbracciarla. Fa tutto con i piedi. Il rivale piega l’acciaio ma quando si avvicina a Joan, viene respinto con rabbia. Le cose però non sono come sembrano. Infatti lei ama il forzuto, non l’amico “mostro” con cui è più affettuosa. Che poi mostro non è. E’ tutto un trucco, ideato per non avere fastidi dalla polizia che ricerca ovunque un pericoloso assassino e rapinatore…Lon Chaney ucciderà perfino il padre di Joan, il padrone prepotente del circo… Ma quando si rende conto che lei potrebbe scoprire il suo segreto, ricatta un chirurgo (reo di aberranti crimini nel passato, in Algeria, chissà cosa ha fatto…) e si fa operare. Le braccia le perde davvero, per amore. Ma Joan supera la psicosi e si mette con mister muscolo. Chaney prepara l’atroce vendetta. Il rivale fa un pericoloso spettacolo con i cavalli. Li trattiene mentre corrono uno di qua e uno di là.. Basterà controllare la leva che ne trattiene la velocità e…

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Non si va a Pordenone per snobismo ma per lavorare. Non per commuoversi nostalgicamente davanti alle immagini di un’arte perduta per sempre – è crescente infatti anche il numero dei giovani critici che partecipano al Collegium, e vogliono confrontarsi con la vitalità di queste immagini – ma per rimuoverne e riattivarne i sensi, per deformare e riscrivere collettivamente e continuamente le storie del cinema, per ribaltare gerarchie ammuffite e obsolete, per vendicare talenti dimenticati, inattuali allora, ex anacronistici, futuristi oggi. Ogni frammento ritrovato può aprire sentieri fecondi. Se il destino per il cinema (non sul web, non in televisione) è legato ai grandi eventi, al futuro super show Marvel (in larga parte muto quanto a qualità e quantità dei dialoghi) ecco che le Giornate del Muto di Pordenone sono un po’ un’esperienze limite di quel tipo. Ci sono solo proiezioni eccezionali. E uniche. O grandi scoperte.

Da Norma Talmadge a Meryl Streep Per esempio senza la conoscenza approfondita (e per noi la scoperta) di Norma Talmadge, oggetto della retrospettiva divistica di questo 2022, ovvero della regina rimossa prima del cinema newyorker anni 10 poi della Hollywood anni 20, dell’attrice e produttrice che al fianco di Joseph Schenck fabbricò e rese il melodramma l’asse portante del mercato cinematograficamente “serio”, si comprenderebbe molto meno un certo tipo particolare di diva e la strada che da lei e da Norma Shearer e Ann Harding ci porta a Greer Garson, Deborah Kerr, persino a Grace Kelly e infine a Meryl Streep. Cioè alla storia dell’attrice di classe, dell’alta recitazione Studio System, di quelle performer capaci di interpretare i classici della letteratura e del teatro o le Grandi Donne della Storia Americana, asiatica, nativa o europea (nel caso di Talmadge: Yes or not, le imbarazzanti epopee colonialiste The Forbidden City e The Hearth of Wetona e The Moth). Hollywood non produce solo sex symbol o bellezze senza talento. Ma attrici di prestigio, capaci di micro-espressioni facciali sottilissime, di esaltarsi manovrando personaggi contrastanti e opposti o gestendo gamme espressive debordanti e estreme. Great Ladies, che onorano il cinema e danno dignità, interpretando da gran dame Madame Curie o Mrs.Miniver, alle cerimonie degli Oscar. Insomma come The Lady di Frank Borzage (1925), in Italia Una vera signora, tour de force recitativo che sulla scia di un personaggio dipinto da Frances Marion, Polly Pearl, le permette di essere credibile e commovente fino al masochismo come star del music hall londinese, poi ricca moglie in Costa azzurra abbandonata da un aristocratico abietto, poi madre single costretta ad affidare il figlio neonato a un pastore protestante pur di non lasciarlo al suocero ancora più immondo (forse è il ritratto di gentiluomo inglese più schifoso di tutto il cinema americano), poi poverissima venditrice di fiori alla ricerca del figlio perduto e sull’orlo del suicidio, infine saggia proprietaria di una locanda marsigliese, in un ambientino che Casco d’oro di Becker ruberà nel 1952 quasi filologicamente. Lì ritroverà, nel tragico finale, il figlio ormai soldato.

Con il sonoro, molto ricca, Norma Talmadge abbandonerà il cinema. Muore a Las Vegas nel 1957. Una famiglia, la sua, di super star, anche se oggi quasi completamente dimenticate. Eppure la sorella Natalie sarà, per un po’, moglie e complice di Buster Keaton e l’altra sorella, la it girl Constance, meno attratta dalle Grandi Dame studiose di Eleonora Duse e Sarah Bernhardt e delle virtuosistiche triangolazioni di sguardo, cuore e mani, sarà un genio della commedia scatenata e della controcultura “gender”. Bisognerà farne, a Pordenone, una retrospettiva altrettanto ampia…. La moda e il silent movie Intanto parte da quest’anno alle Giornate una attenzione speciale al capitolo “moda e cinema”. Un intervento, il 6 ottobre scorso, della storica del costume Michelle Tolini Finamore, oltre che quello di Deborah Landis, è stato proprio dedicato all’importanza che Norma Talmadge, produttrice di se stessa, e critica di moda in riviste specializzate (molto aiutata da Harrison Ford, ne parleremo), dava al reparto “dressing”, non solo per assumere sui set sarti di classe: grandi designer del costume diventeranno indispensabili presenze creative in tutti gli Studios. Quando i gay erano protetti Uno dei suoi partner più adorati, l’attore gay neworchese Harrison Ford (niente a che vedere con il suo omonimo moderno), contribuì al successo di Love’s Redempion (1921) e Smilin’Through (1922) anche per i suoi raffinatissimi gusti sartoriali (oltre che adorato dal geloso Schenk, perché non particolarmente pericoloso sul set). L’altro partner classico di Norma era l’irlandese che veniva dal Colorado, altrettanto omosessuale e stimato da Schenk, Eugene O’Brien (visto in The Moth e Ghost of Yesterday, una sorta di signora delle camelie del 1918), ma raccontano i pettegoli della settima arte, piuttosto più flessibile sessualmente… Nel cinema muto la sensibilità gay alto-medio borghese (pensiamo anche a Edmund Lowe, Dorothy Arzner, William Desmond Taylor…) era molto apprezzata dai produttori (immigrati di lingua madre yiddish, piuttosto rozzi e geniali) purché fosse off screen, sia per la loro straordinaria creatività quanto a set e moda (pensiamo a George James Hopkins, responsabile del look Theda Bara, o a Howard Greer che nel 1922 creò il primo Wardrobe Departement per Pola Negri) che per la capacità, da fedeli partner di Norma Talmadge, di ricreare (in forme sottilmente e segretamente parodistiche, e in maniera insuperabile) l’intera raggiera dei valori, dei comportamenti e degli ideali middle-class. I mass-media anni dieci e primi anni venti erano più liberi e meno aggressivi di quelli che l’avrebbero certo fatta pagare a Rock Hudson e Tyrone Power…. Quella cultura e quella esperienza che a loro mancava. Clifton Webb, superato il decennio omofobo, riemergerà negli anni 40 come ultimo rappresentante dell’antica “covata benefica”, relativamente tollerata e privilegiate, prima del Codice Hays. Inoltre. La musica dal vivo

Lunedì 3 ottobre alle ore 22, durante la proiezione del melodramma della gelosia La dixième symphonie di Abel Gance del 1918, uno straclassico francese del cinema muto (presentato nella sezione ”Il canone rivisitato”), applausi a scena aperta dell’intera platea e galleria in piedi dopo la trascinante esecuzione al piano della “decima sinfonia” (evocata nel titolo del film) che Donald Sosin ha appositamente creato, “alla maniera di Beethoven”, visto che la partitura originale è andata perduta. Lo statunitense Sosin, il “pianista del muto” per antonomasia, oltre mille le partiture composte e un centinaio quelle registrate, è il Papa della musica applicata al cinema “primitivo”. In questa performance demoniaca, un dinamico pianismo liberatorio jazz-espressionista eccita fino alla rottura il design ossessionato dalla ricomposizione dell’opera romantica, rendendo dissonante, ma esteticamente avvincente, la sublimazione finale del tormento e del dolore esistenziale di Enric Damor (l’attore Severin Mars). Cioè del compositore stesso della “Decima”, sconvolto dal tradimento (in realtà del tutto inesistente) della moglie Eva (Emmy Lynn), ma grato a lei per averlo trascinato, con il suo oscuro passato, anche di assassina, riemerso, nel baratro tragico più creativo. E’ come se nella perversa parodia del sublime di Sosin – a prendere il controllo musicale della partitura sia proprio il losco viveur Fred Ryce (Jean Toulot), il rivale di Damor, ma in fondo il suo doppio come si vedrà nel sorprendente finale, cioè il simbolo stesso della prepotenza maschile europea tra le due guerre, dittatoriale, a partire dal controllo delle donne. Il destino di Eva – ci dice Gance invitandoci solo a compiangerla – ricattata per tutta la vita, è la sottomissione totale, matrimoniale (e non c’è divorzio che tenga) e giudiziaria (in realtà ha ucciso per legittima difesa, ma nessun tribunale le darà mai ragione). Per fortuna arriva la musica di Sosin a vendicarla, a trasformarla in antesignana della sovversiva femme fatale.

Sosin così affianca e supera Gance, ancora prono all’inossidabile (e piuttosto noioso narrativamente) baricentro simbolico maschile, riaggregatosi opportunisticamente dopo la strage (10 milioni di giovani soldati morti) della Grande Guerra. Che avrà conseguenze disastrose, nei rapporti tra i sessi, in quasi tutte le società europee (la neutrale Svezia esclusa, come vedremo). La qualità, anche musicale, delle proiezioni è dunque ciò che ha reso ancora più obbligatorio il viaggio annuale a Pordenone (decano dei tanti festival dei “silent movies” che ne hanno poi riapplicato la formula ovunque). Billy Wilder diceva che una platea è sempre geniale anche se il singolo spettatore può essere stupido. Pordenone lavora molto ben soprattutto sul singolo spettatore, per esempio fornendogli un catalogo che è il più ricco e completo e “militante” (in un’epoca di cataloghi, vedi Venezia e Cannes, solo autopromozionali, qui si fa provocazione e polemica).

Ruritania. La Svezia in crisi fu più fertile Nell’altra sezione forte del programma, dedicata ai film del genere Ruritania, e di grande attualità vista la commozione mondiale per le esequie di Elisabetta II, l’ ultima monarca magicamente rispettabile della storia, si è visto la divertentissima e sovversiva commedia, in coproduzione con la Germania, del 1928, quasi un Lubitsch-touch, Sua maestà il barbiere (Hans Kungl. Hoget Shinglar) scritta dal geniale umorista viennese ebreo Paul Merzbach (anche regista del cinema inglese oltre che scandinavo, visto che era in fuga da Hitler) e girato negli studi presso Stoccolma dal regista svedese Ragnar Hyltén-Cavallius che i grandi storici come il compagno Georges Sadoul e i fascisti Maurice Bordéche-Robert Brasillach ricordano solo perché lavorò a un certo punto con il sommo Vilgot Sjostrom, dilungandosi invece sulla crisi irreversibile del cinema svedese che era stato grande e unico nell’epoca Mauritz Stiller-Greta Garbo, affascinante per i suoi poemi “wilderness più misticismo”, fino ai primi anni 20, ma poi era stato distrutto da Hollywood che aveva avuto l’abilità di prosciugarne tutti i quadri creativi più illustri. E ne aveva mal copiato la ritmica e gli assoli
Invece Per un cinema europeo diverso.
Oltre alla presenza forte di un’altra diva dimenticata come la svedese Brita Appelgren, quasi una Drew Barrymore ante litteram, per grazia, arguzia e ferocia, e una irrisione alle leggi comportamentali e di glamour vittoriane, qui completamente sfigurate e irrise come in nessun mélo di Norma Talmadge si osava, questo swing-film, questo esempio sovversivo di commedia dei telefoni bianchi – bollato infatti dalla critica pregiata con la peggiore delle sue ingiurie, cioè come “americanata” – è invece un esempio importante, il prototipo, di altra via feconda che avrebbe potuto prendere, e non prese, il cinema europeo nel momento di passaggio dal muto al sonoro. Sono stati infatti i nipotini di Nestroy e della farsa viennesa a concepire nella prima metà dell’ottocento (feudale, dispotico, imperiale) e strutturare poi in dettagli sulfurei quella che sarebbe diventata la ‘slapstick comedy’, che nacque in Francia e fu soprattutto animata dalle selvagge nasty girl e dai comici anarchici, e poi si travestì da commedia avvelenata, deturpata, inquinata, insomma “sofisticata” che ebbe il suo momento di gloria proprio nel decennio dei film più censurati, ovunque nel mondo, della storia. Gli anni trenta. In Usa, in Urss, in Italia, in Germania… Il ramo Lubitsch-Wilder, che conosciamo di più, fruttificò a Hollywood. Ma un altro ramo, da Vienna, passando per Berlino, Parigi, Stoccolma e Londra, poteva essere la salvezza del cinema europeo. Farne la potenza n.1 competitiva sul mercato mondiale. E fu lasciato morire. Fu un grosso equivoco sul concetto di cinema di qualità, d’arte, d’autore. Ai tecnici della battuta e della frase fatta, avrebbe risposto Karl Kraus che l’arte (non permessa dalla legge) è quella “lunga strada tra il guardato e il pensato, il percorso più breve tra un rigagnolo e la Via Lattea”. E forse sotto il cielo europeo non c’è stato nessun corriere veloce come Paul Merzbach: con lui la vita non è stata male arredata. Copiava Lubitsch? Certo, il couplet (cioè quando nel vaudeville a un brano musicale si cambiano le parole per far ridere, o un film trombone diventa divertente grazie a Franco e Ciccio) è grande arte,  high art. Altra idea per un Pordenone a venire?
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