Cléo dalle 5 alle 7, di Agnès Varda

Varda filma il tempo e la vita in un gioco a tre con i personaggi e lo spettatore mettendo in scena quella poetica dell’esistenza che sarà un manifesto per il cinema a venire.

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L’incipit di Cléo dalle 5 alle 7 è un manifesto espressivo che Virginia Woolf avrebbe apprezzato, anche se probabilmente avrebbe considerato la scatola in cui è contenuto ancora troppo quadrata. In un’inquadratura fissa, a colori, che mostra un tavolo dall’alto prendiamo parte a una seduta di tarocchi, “tre carte per il passato, tre per il presente e tre per il futuro”; nell’aria il ticchettio di un orologio. Eccolo lì il tempo, che si materializza secondo un’immagine che anni dopo sarà centrale nel pensiero di Deleuze, il quale individua nel cinema moderno rispetto a quello classico una rottura, dei tagli irrazionali, che non a caso sono tra le cifre della nouvelle vague, esplosione di vita in frammenti. Se ne riconoscono molti anche in Varda, da quel suo primo movimento che è La pointe courte, un po’ accademico nel suo dispiegarsi e allo stesso tempo simile per modello a questa seconda opera. Chiamarla film non sarebbe appropriato, come non lo sarebbe definire La signora Dalloway un romanzo. Le etichette non appartengono a nessuna delle due: Varda è una continua sperimentatrice che mette in scena, come Virginia, forme che di volta in volta possano adattarsi alle immagini che la mente crea, per arrivare a quelle zone inafferrabili della narrazione che sono poesia dell’esistenza.

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Nel suo esordio Varda raccontava la crisi di una coppia di giovani sposi che si risolveva con una riconciliazione in mezzo a un gruppo di persone danzanti. Qui il conflitto è interiore alla protagonista stessa (Corinne Marchand) che disperata – forse ha il cancro – si rivolge a una cartomante. Dovrà attendere la sera per ricevere una risposta dal dottore.
Il tempo, scandito in capitoli sullo schermo – ore e minuti – e dalla presenza di orologi, accompagna il peregrinare di Cléo per le strade di Parigi in cerca di un sollievo o di una distrazione dai pensieri di morte che la rincorrono. L’unità temporale della storia, un’ora e mezza, corrisponde alla durata cinematografica. I due piani coincidono come a rivelare il gioco d’illusione che si nasconde dietro la macchina da presa. Eppure, nonostante questi confini marcati, Cléo (e noi con lei) è in balia delle onde: in alcuni momenti ha la sensazione che il tempo stia passando in fretta, in altri che sia fermato – le sembra interminabile: è la percezione che tutti ne abbiamo vivendo in prima persona e che Varda riesce a filmare rendendo di fatto il tempo visibile.

La dimensione soggettiva, che il bianco e nero accentua, ci fa entrare nel profondo di Cléo e seguire la sua lenta trasformazione che passa dal fuori al dentro, dall’immagine che gli altri hanno di lei e che vediamo riflessa all’infinito negli specchi: cantante, amante, amica – tante facce quanti sono i cappelli che prova. Cléo si fa scudo della sua bellezza che indossa come un’armatura per serrare il male che forse porta dentro – “meglio lì che altrove”, dice, “almeno non si vede e nessuno lo sospetta”. Il dolore riaffiora quando intona il testo di una nuova canzone, è esausta: “Tutti mi viziano, ma nessuno mi ama”, grida. Si toglie la parrucca e il négligé di piume, indossa un abito semplice ed esce di casa senza una meta. L’ultimo orpello cade quando incontra Antoine (Antoine Bourseiller), un soldato che sta per partire per la guerra in Algeria: “Oggi siamo nel solstizio d’estate, è la festa di Flora”, le dice; “il mio nome è Florence”, risponde Cléo. Un senso di rinascita cammina di pari passo con la morte; Varda si diverte a sottolineare la presenza del comico nel tragico e viceversa (ce lo ricorda con Godard a cui sembra far eco l’incipit de La signora Dalloway, “Che gioia! Che terrore!”) spingendo questo gioco fino alla fine – il dottore darà a Cléo una risposta sbrigativa.

Uniti dallo stesso destino incerto, Cléo e Antoine si muovono verso di noi, l’una accanto all’altro. Ancora una volta il tempo si dilata. È un momento mirabile, prezioso che vorremmo durasse in eterno – i loro volti in primo piano, lo scambio di sguardi e quella battuta: “Mi sembra di non aver più paura, mi sembra di essere felice”.

Titolo originale: Cléo de 5 à 7
Regia: Agnès Varda
Interpreti: Corinne Marchand, Antoine Bourseiller, Dominique Davray, Dorothée Blank, Michel Legrand, Serge Korber, José Luis de Villalonga
Durata: 86′
Origine: Francia, Italia 1962

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.8
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Il voto dei lettori
4.29 (7 voti)
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