DOCUSFERA #2 – Incontro con Mauro Santini

All’interno della rassegna di Sentieri Selvaggi, abbiamo incontrato l’autore di Dove non siamo stati e Giorno di Scuoia, titoli da cui ha preso il via la riflessione su vita, immagini e indipendenza

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Il progetto DOCUSFERA, avviato l’anno scorso da Sentieri selvaggi, ha l’intento di ragionare sul documentario italiano, sulla sua storia e sull’attualità, sulle prospettive e le pratiche. La seconda edizione, iniziativa realizzata con il contributo e il patrocinio della Direzione generale Cinema e audiovisivo – Ministero della Cultura, Sabato 12 novembre ha avuto il piacere di ospitare Mauro Santini.

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L’incontro inizia con la visione di due dei lavori del regista, Dove non siamo stati e Giorno di scuola (vincitore del 45esimo Laceno d’Oro). Il primo  il racconto di un’assenza, che riguarda le persone, i corpi, ma riguarda anche l’immagine, che tende a venir meno… Afferma Santini: mi vien da pensare all’attesa di un istante. Si trattava di omaggiare Corso (Salani), da una richiesta avuta dal Festival di Torino. Ho messo in atto, per una delle rarissime occasioni, l’utilizzo di un treppiedi (vi è la mancanza del cavalletto nei miei film perché così sono libero di riprendere ciò che accade intorno a me), e ho deciso, laddove mancava un corpo d’attore, di far sì che, per una volta, il treppiede entrasse nel mio cinema, con delle inquadrature più studiate, meditate. E quindi creare un campo, scegliere nell’istante stesso della ripresa se tenerlo fisso, se panoramicarlo, giocare con gli elementi del cinema, ma dargli un tempo del momento stesso della ripresa: scegliere, nell’atto della ripresa, già la durata per il montaggio. Le inquadrature sono molto dense, sature di elementi naturali, e l’assenza è quella di un amico, di un compagno di viaggio, di un grande regista, di un grande attore, che però è presente attraverso questa voce che appartiene ad un film, che si chiamava “Dove sono stato”, cui Corso era stato presente. Ogni inquadratura vive di questo: dell’attesa che questo corpo si possa finalmente manifestare, ma ciò che avviene, purtroppo, è solo la presenza della sua voce, appartenente ad un film di dieci anni prima. Un breve film fatto per omaggiare un amico, ma che credo racchiuda il senso di ciò che c’è stato prima (dal 2000 ad allora), e ciò che è avvenuto dopo, perché poi a parte Giorno di scuola, in tutti i miei film non ci sono attori e le figure che compaiono sono coloro che stanno con me nella vita quotidiana. In questo, credo ci sia vicinanza e distanza, con Corso Salani, in questo tentativo di mescolare la vita tra la biografia e la “finzione”. L’elemento dell’assenza, dunque, è fondamentale e appartiene anche al film “L’attesa di un’estate”, un altro film che attraverso l’immagine, continuamente tagliata, privata, mancante quasi, racconta in quel caso, della scomparsa di mia madre. L’immagine di un’amaca, sospesa, vuota, sotto la pioggia è segno di un’assenza fortissima e però appartiene ad un momento che è fortemente collegabile al giorno in cui Corso muore nel 2010, a 48 anni al Lido di Ostia, a causa di un infarto cardiaco.

Sono film senza sceneggiatura, scopriamo allora quali sono i punti della bussola di Mauro Santini, come si orienta e se ci sono dei cardini su cui va a strutturare il film. In fase di ripresa, non esistono. Prima lasciavo che le immagini assumessero una loro storia, perché pensavo non fossero portatrici di un tempo immediato, mentre adesso metto sul tavolo vari elementi e si comincia a vedere come dialogano tra loro. La ripresa è una semplice raccolta di materiali. Si esce al mattino e si comincia a raccogliere. Tutto questo prende corpo e struttura attraverso il lavoro di montaggio molto rigoroso: scelgo un elemento portante, perno del racconto, e vado a costruire un montaggio laddove le riprese non avevano una costruzione narrativa. Andare a scoprire come, anche certi difetti che il cinema ufficiale nasconde, possono diventare una cifra fondamentale del racconto. Un racconto che non ha scrittura a priori ha bisogno di queste forme di vita molto forti, che siano in grado di sorreggerlo (la mano che chiude l’obiettivo, sentire il battito cardiaco in una ripresa lunga): i corpi non sono davanti la camera ma la recitazione dell’attore è totalmente trasferita nello sguardo. La Bellezza non va costruita, va colta, trovata… Che non sta tanto nell’immagine in sé ma nel modo in cui le immagini stanno tra loro, l’una con l’altra. Nella loro banalità sanno costruire qualcosa che sia narrativo e bello, nella sua compattezza.

Giorno di scuola non poteva che essere così un documentario osservazionale con la raccolta di materiali utilizzati successivamente in fase di montaggio. Non c’è un’altra strada… No, non c’è un’altra strada. Ho conosciuto i due/tre imprenditori partigiani che, attraverso una raccolta privata, hanno permesso la costruzione della scuola. Lo Stato permetteva di costruzione una scuola provvisoria, invece loro, attraverso questa raccolta fondi, sono riusciti a ricostruire una scuola nel punto esatto in cui era quella precedente. Ho iniziato le riprese senza sapere cosa mi avrebbe portato, e inizialmente avevo deciso di lasciare fuori dal film la questione terremoto e raccontare un giorno di normalità, all’interno di questo paese, attraverso il ritorno dei bambini a scuola. Sono stato costretto a raccontare il terremoto perché il reale ha cominciato a modificare qualsiasi presupposto. Solitamente non utilizzo tante musiche ma in questo lavoro sono molto presenti (anche al musicista ho chiesto a Marco Fagotti di non creare una musica ex novo ma di partire da qualcosa di concreto, dalle note che suonava un bimbo, Marco), perché mi piaceva l’idea di mantenere una semplicità del racconto con un suono che potesse aiutare. Volevo rendere il racconto più universale possibile. Un’atmosfera antecedente che conta più di ogni altra cosa, in cui l’evento/azione manca. Vi è un vissuto che viene ripreso che contiene già la vita, di suo. La scommessa sta nel portarla all’interno delle immagini che stiamo riprendendo. Mi sono innamorato di questi bambini, della loro comunità, Pieve Torina, e ho deciso di continuare a seguirli.

In conclusione viene chiesto cosa significhi poter donare, come autore e fautore, un’altra vita alle proprie opere. Porta con sé tante difficoltà. Cosa rimarrà di tutte queste immagini, un giorno? È un grande cruccio. I grandi festival si occupano di altro cinema e mi chiedo cosa rimarrà di questo enorme lavoro. Per produrre 40 film e passa, in questi venti anni, senza mai un produttore, inevitabilmente devi fare altro, ma dedichi la tua vita a questo. Al giorno d’oggi è importante sapere che ci sono persone che riconoscono il tuo lavoro, che lo fanno girare nei festival e lo fanno vedere alle nuove generazioni. Tassello dopo tassello, il lavoro raccolto negli anni darà soddisfazioni, conoscendo tutta la fatica che c’è stata dietro per realizzarlo. Nelle piccole cose può nascere un percorso che anno dopo anno, film dopo film, vi porta a creare qualcosa di altrettanto grande.

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