DOCUSFERA #3 – Mario Martone racconta i suoi documentari

Il regista racconta al pubblico l’importanza del documentario e come quest’ultimo nasca per lui dalle occasioni più diverse, dalla cultura Saharawi a Massimo Troisi

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Venerdì 15 dicembre la terza edizione di Docusfera, la rassegna di Sentieri Selvaggi realizzata con il contributo e il patrocinio della Direzione generale cinema e audiovisivo – Ministero della Cultura, si è conclusa con l’incontro con Mario Martone, in occasione della retrospettiva dei suoi lavori documentaristici che era parte integrante del programma dell’evento. L’incontro si è aperto con la visione del film di Martone intitolato Una storia Saharawi. Il progetto è stato realizzato da Mario Martone in collaborazione con Unicef e Rai. Il documentario è stato definito dal regista come una “narrazione favolistica” (non lontana da quella dell’ultimo Garrone) con una forte componente rosselliniana, tra i temi portanti c’è quello della guerra. Il regista porta sullo schermo la vita dei Saharawi, una popolazione del deserto del Marocco poco conosciuta e considerata politicamente.

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La storia racconta di un bambino morso da un serpente. “I bambini hanno la responsabilità degli adulti” dice durante l’incontro il regista, che per realizzare questo docufilm non ha lavorato con degli attori, ma ha approfondito la loro condizione lavorando a stretto contatto con persone reali, adulti e bambini, “prendendo da loro quello che sono perfettamente in grado di esprimere e comprendere”. Allo stesso modo di Io Capitano, il regista deve avere la capacità di mettere a proprio agio i suoi “attori”, stabilendo una sorta di gioco basato sul patto cinematografico.

Questa piccola popolazione, tanto è distante dal concetto di modernità, che non sapeva nemmeno spiegarsi cosa fosse il cinema, in particolar modo gli anziani. Nonostante ciò, Mario Martone afferma di aver trovato questa esperienza molto formativa anche dal suo punto di vista, in quanto “sei tu che improvvisamente impari e capisci una serie di cose”. Per girare delle riprese in un luogo distante da noi, devi riuscire a guardare il mondo con gli occhi di chi quel posto lo vive ogni giorno. Lo scambio che avviene tra due culture differenti è di vitale importanza e la spinta documentaristica diventa un motivo concreto che ti permette di cogliere l’occasione.

“I documentari sono sempre nati da occasioni” ed in questo caso, grazie ad Unicef e Rai, “l’occasione diventa anche un modo di sperimentare libero”. Martone infatti attraversa vari formati e stili nel corso della sua carriera e anche nel documentario si cimenta in diverse tipologie di racconto. Una storia Saharawi è un documentario con un livello narrativo fittizio, in cui alla base c’è un racconto inventato; altre volte invece, lo stesso genere è esemplificato grazie ad una testimonianza diretta.

Nel caso del documentario su Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama, Martone afferma che la struttura filmica si compose da sola durante le riprese e grazie al montaggio. Il suo scopo finale era quello di dare vita ad un’opera in cui l’attore sembrasse ancora vivo e come se i due fossero riusciti a collaborare in un film, idea che non si era mai concretizzata a causa della morte prematura di Troisi. Il regista crede molto nell’improvvisazione, nel lasciarsi trasportare dalle trasformazioni del canovaccio, che parte da un’idea o da un’occasione e da lì si costruisce passo dopo passo.

 

 

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