Blog MONTAGGI – Elogio del camminare (o del fare cinema)
Camminare è vedere, è la possibilità di vedere. Herzog rappresenta in fondo un’idea di cinema in cui la velocità (umana) è la garanzia di un cinema che può trascenderla. Un elogio del camminare.

Herzog, del camminare, o del vedere
Qual è il modo migliore per insegnare a fare cinema? Domanda che spesso viene posta a cineasti di tutto il mondo, che altrettanto spesso si ingegnano nel dare risposte concrete o originali, oppure anche annoiate e distaccate. Eppure ce n’è una particolare, una risposta che non può non colpire, quella che ha dato più volte Werner Herzog. Spesso infatti il regista tedesco ritorna su una sua idea: quella secondo cui per fare cinema, per essere selezionati in una scuola di cinema occorre fare un esercizio: partire da soli, con uno zaino e pochi strumenti, una penna e un taccuino. Andare a piedi per migliaia di chilometri, camminare e guardare; scrivere e tenere un diario.
Quel diario sarebbe stata la prova d’ammissione per poter entrare in una scuola di cinema. Perché? Basta leggere i diari di Herzog, come La conquista dell’inutile (sulla lavorazione di Fitzcarraldo) o Sentieri nel ghiaccio (sul viaggio che Herzog ha fatto a piedi, dalla Baviera a Parigi per salvare la vita di Lotte Eisner), per avere la risposta: quelle note, quelle pagine sono uno straordinario esercizio di osservazione, di visione già cinematografica.
Camminare è vedere, è la possibilità di vedere. Herzog rappresenta in fondo un’idea di cinema in cui la velocità (umana) è la garanzia di un cinema che può trascenderla. Un elogio del camminare.
Eppure il camminare è anche qualcos’altro nel cinema contemporaneo; esso diventa o può diventare la cifra di un errare a vuoto, senza meta, di un camminare sul posto. Due film sembrano sintetizzarlo con forza, due film recenti e diversissimi: in Un sogno chiamato Florida di Sean Baker, i protagonisti, i ragazzini di età diverse vagano, camminano, corrono
lungo gli stessi spazi artificiali e colorati ai margini di Disneyland. Passano a lato degli stessi negozi, delle stesse case, per tutto il film. Cosa vedono? cosa possono vedere? Il mondo è tutto lì, in quei colori artificiali, in quei segni di vita passata, in quel junk food di cui si nutrono. Quello di Baker è uno spazio circoscritto, soffocante (nonostante i campi lunghi o il paesaggio della Florida sullo sfondo); si cammina a vuoto, non si riesce a vedere.
Camminare è ancora un desiderio, il desiderio di vedere, cioè di vivere, in Walter Benjamin e gli altri personaggi di Gli indesiderati d’Europa di Fabrizio Ferraro. Benjamin nel film cammina avanti e indietro all’interno della sua stanza, cammina da un lato e l’altro del porto, cammina da una casa all’altra, cammina lungo il sentiero della montagna per prepararsi a passare il confine. Camminare diventa un
atto politico, fare affidamento solo sul proprio corpo per fuggire da un luogo all’altro di una Europa dai confini sempre più chiusi e netti. Nel film il movimento dei corpi è accentuato, passo dopo passo, lo sentiamo nelle lunghe carrellate, nei traveling senza fine che accompagnano il muoversi reale degli attori. Ancora una volta è un camminare destinato allo scacco. Benjamin non riuscirà a portare fino in fondo il suo cammino, il camminare non porterà a vedere.
Eppure questo non nega certo il valore e la forza della visione herzoghiana, al contrario, ne mostra il limite, e dunque la potenzialità cinematografica. L’elogio del camminare è aperto sempre anche al suo scacco.