FCE18 – Incontro con Agnieszka Holland

La regista polacca, ospite della rassegna leccese, presenta il suo ultimo film, Spoor, e affronta varie tematiche, dalla politica alla società, dal cinema alla televisione. Ulivo d’Oro alla Carriera

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Due volte candidata agli Oscar – nel 1985 con Raccolto amaro nella categoria Miglior Film Straniero e nel 1990 con Europa Europa, per la Sceneggiatura Non Originale – la sessantottenne regista polacca Agnieszka Holland ha ricevuto l’Ulivo d’Oro alla Carriera ed è stata celebrata dalla XVIII edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce che le dedica la più completa retrospettiva italiana dei suoi film. L’occasione è quella della presentazione del suo ultimo film, Spoor (Pokot, 2017) (LEGGI la recensione di Aldo Spiniello), presentato con ottimo riscontro di critica all’ultima edizione della Berlinale. Assistente di Krzysztof Zanussi e collaboratrice di Andrzej Wajda, la Holland è tra le promotrici del “cinema dell’inquietudine morale” con Attori di Provincia, premiato dalla critica al Festival di Cannes nel 1980. Nel 1981 la regista emigra in Francia. La Holland ha lavorato molto anche per la televisione in numerose e celebri serie come House of Cards, The Wire, Cold Case e Treme.

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Quella di Agnieszka Holland è una cinematografia che, oltre a testimoniare i passaggi fondamentali dell’evoluzione politica nella Polonia e nell’Europa orientale della seconda metà del XX secolo, rappresenta una fase di transizione importante tra la visione dei mentori Zanussi e Wajda, un cinema nutrito della nouvelle vague degli anni Sessanta e Settanta e le sfide contemporanee della serialità e del nuovo linguaggio filmico. Ed è un cinema che si confronta con la complessità della storia, dotato di una visione interlocutoria della realtà storica, interpretata da punti di vista differenti e spesso spazianti, e che, oggi più che mai, trova una sua attinenza con quello che è il confronto con i tempi storici che viviamo, tempi in cui le ideologie si sono perse e sono subentrate altre realtà.

Qual è il suo approccio alla realtà storica attuale? “A me piace realizzare film che parlano del passato, non al passato. Infatti, non sono affatto una nostalgica e non rimpiango la gioventù, piuttosto amo affrontare gli avvenimenti che si sono succeduti nel corso della storia laddove c’è un legame con la situazione contemporanea. Magari i miei film sono girati in costume, ma le domande ed i problemi che sollevano sono contemporanei. Mi interessa affrontare il presente e, attraverso i miei film, intendo porre delle domande capaci di suscitare dibattito e discussione. Come ha detto la filosofa polacca Maria Janion al mio amatissimo mentore Andrzej Wajda: Tu realizzi i film del futuro, hai questa capacità. A volte anche io ho la medesima sensazione di riuscire a trattare la materia filmica con questo stesso approccio, di riuscire a toccare il futuro anche attraverso tematiche o racconti ambientati nel presente o nel passato. Il mio ultimo film, Spoor – che è un mix davvero bizzarro e sfuggente di diversi generi, dal poliziesco al thriller, dalla fiaba alla commedia nera fino al dramma psicologico e che ha richiesto tantissimo tempo ed impegno per la lavorazione – è diventato immediatamente un film politico, per quanto noi non lo avessimo proprio immaginato da questo punto di vista. Effettivamente, a ben vedere, va a toccare quella divisione della società che si è prodotta alla fine della Seconda Guerra Mondiale, una divisione che è presente in tutte le tematiche che affronto nella pellicola. In un certo qual modo, potrete vedere come il passato, il presente e il futuro si uniscano nella realtà della narrazione”.

XVIII FCE Lecce_Incontro stampa Agnieszka Holland_5Lo stesso Andrzej Wajda in un’occasione ha raccontato di avere cambiato totalmente la sua prospettiva di vedere le cose nel momento in cui si è confrontato con la nuova generazione di cineasti, in particolare con Agnieszka Holland. Diceva che lei è stata in grado di trasmettergli uno sguardo differente rispetto a quello che stava avvenendo in Polonia e che lui stesso non sempre era capace di percepire nella sua complessità. Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova Europa, saprebbe indicarci una mappa che possa orientarci in una realtà contemporanea tanto difficile e confusa?Mi state chiedendo in pratica di essere un mix tra il papa e il presidente degli Stati Uniti, a quanto pare ciò conferma l’influenza negativa che ho avuto su Wajda. Al di là di tutto, ci troviamo in un periodo storico estremamente pericoloso e fluido, di grande transizione, caratterizzato da trasformazioni velocissime che non siamo in grado o non abbiamo la possibilità di cogliere ed assimilare. Abbiamo vissuto questo ottimismo quasi puerile ed ingenuo nel momento del crollo della Cortina di Ferro. Abbiamo assistito al tentativo di cambiare quella che era la situazione in Europa Orientale e ci siamo forse illusi di tornare a vivere come negli anni Trenta del XX secolo, dimenticando che questo comporta anche il ritorno delle ansie e dei demoni di quel momento storico. Ma la realtà è ben diversa. Ci sono tantissimi leader politici che, in nome di principi nazionalisti e populisti, stanno portando avanti le proprie idee ed i propri programmi. Personalmente, ho seguito con attenzione questi movimenti e quello che sta accadendo in Polonia, in Ungheria, in Francia, negli stessi Stati Uniti. La cosa che stupisce davvero non è tanto il fatto che ci siano dei leader che professino questo credo politico e queste derive ideologiche, ma che ci siano degli elettori che scelgano di seguirli e che guardino a loro come a persone in grado di offrire risposte alle questioni e ai problemi che affliggono la società. Questo è successo perché nel passato recente i partiti che si sono alternati al potere o all’opposizione, i cosiddetti partiti tradizionali della sinistra, non sono stati in grado di fornire risposte e soluzioni e di capire il cambiamento dei tempi. Quello che vediamo oggi è, quindi, il risultato della loro pigrizia, dell’inerzia della classe dirigente, degli intellettuali e del mondo della borghesia. Questo fallimento è dovuto, a mio modo di vedere, a tre fattori”.

La cineasta polacca enuclea, dunque, tre fattori determinanti e non si tira indietro nell’esporre il suo punto di vista storico-politico, prima ancora che cinematografico. Il primo fattore lo individua nella globalizzazione che rende gli Stati ed i governi nazionali incapaci di esprimere e realizzare un controllo nella maniera in cui il potere andrebbe esercitato. Si pensa di detenere il potere e di governare, ma in realtà ci sono tanti aspetti che sfuggono alla loro possibilità di intervento. Il vero potere è nelle mani delle corporazioni internazionali e delle multinazionali e questo è molto frustante sia per i politici stessi che per la gente comune, quei cittadini che, da un lato, pensano di poter fruire dei guadagni generati dall’economia globale, ma che in realtà sono principalmente vittime di questa situazione perché ciò comporta una perdita progressiva della loro identità e della loro personalità. Non è certo la globalizzazione, quindi, la ricetta per affrontare al meglio le questioni sociali, mentre può essere uno strumento per altri problemi scottanti. ”Uno dei risultati più gravi di questo processo – prosegue la regista – è la questione ecologica: ecco, questo è un problema che non può essere risolto a livello locale, ma deve essere affrontato a livello globale, con una cooperazione internazionale. Il fatto, per esempio, che Trump abbia disatteso tutti i provvedimenti ed i trattati fino ad ora adottati sul piano ecologico non fa altro che dimostrare la sua impotenza. Una situazione di imbarazzo e di incapacità politica che si è acuita anche nella Russia di Putin e nella Polonia di Kaczyński. Quella dei politici è una reazione masochista ai problemi che non riescono a risolvere: poiché loro non sono in grado di controllare la situazione, a pagare lo scotto del loro fallimento sono tutti i cittadini. Il fatto è che la globalizzazione non è stata considerata un vero problema, anzi, è stata giudicata dagli intellettuali e dalle classi dirigenti come un fattore positivo e da affrontare con ottimismo”.

Il secondo fattore è la rivoluzione che ha investito il settore informatico, destinata a produrre conseguenze epocali tanto quanto la rivoluzione industriale o l’invenzione della stampa: cambia costantemente il nostro modo di comunicare, di interagire, di creare. Si è pensato che la rete fosse la nuova democrazia dell’informazione, ma in realtà essa agisce ed organizza la nostra società in una maniera diversa, creando delle bolle nelle quali ognuno di noi va a collocarsi. Queste bolle diventano a loro volta una nuova prigione che ci impedisce di verificare la qualità delle informazioni di cui fruiamo e di distinguere tra notizie vere ed informazioni fittizie. La conseguenza è che si finisce per attribuire la stessa importanza a tutte le informazioni, reali o false che siano, privandoci dello spirito critico e della capacità di analisi di fronte ad una notizia. Il terzo fattore evidenziato dalla Holland è, per così dire, una “contro contro-rivoluzione”. In questa stagione storica di cambiamenti repentini un posto di particolare importanza è rivestito dall’esplosione dei ruoli di genere tradizionali. A causa dell’emancipazione e del nuovo ruolo sociale della donna, cambiato notevolmente e diventato molto più dinamico, intraprendente ed attivo, si sono rinnovate le dinamiche in cui finora la donna era stata vista, quelle della regnante della famiglia. Adesso la donna ha un ruolo all’interno della società e il risultato è questa reazione da parte dei maschi, principalmente bianchi, come Trump, appunto, che si ritrovano senza grossi pezzi del loro potere, che viene eroso costantemente. Gli uomini non solo hanno perso un ruolo importante all’interno della società e della sua struttura di potere, ma lo stanno perdendo anche all’interno della famiglia e dei ruoli di coppia. Tutto questo, unitamente alla drammatica questione della crisi dei profughi, ha fatto sì che i politici abbiano dimostrato la loro incapacità di risolvere i nostri problemi. Succede, dunque, che i nuovi leader populisti e nazionalisti affermano di avere la ricetta per risolvere questi problemi, ma non è vero, fingono di sapere quale sia la soluzione o comunque cercano di affrontarla.

HollandCosa può fare il cinema in una situazione simile? Nel recente passato sono pochissimi gli autori cinematografici che hanno affrontato tutti questi temi. Ad esempio, Kaurismäki e Rosi hanno rappresentato tematiche come la questione dei profughi, ma il cinema dà la sensazione di non avvicinarsi in maniera efficace ai problemi di oggi. “Ci sono dei film che sfiorano tutti questi temi, ma lo fanno a livello superficiale, quasi come se fosse una decorazione, un ornamento. È piuttosto facile mostrare sul grande schermo la sofferenza delle persone a livello umano, è facile descrivere la paura, l’odio e trattare con empatia diversi temi ed eventi. Anche noi che lavoriamo nell’ambito cinematografico – cineasti, attori, attrici, intellettuali – e che siamo forse più propensi ad affrontare questi argomenti in maniera empatica e fraterna, ci troviamo a parlarne senza trovare delle risposte. In Occidente ci siamo trovati ad affrontare una situazione nella quale dobbiamo prenderci delle responsabilità. Gli Americani e gli Europei, alleati, hanno invaso diverse nazioni per porre fine ad alcuni regimi, come in Iraq e in Libia. Ma una volta che i leader sono stati rovesciati, gli alleati hanno abbandonato il paese lasciando le nazioni nel caos e senza risolvere i loro veri problemi. Questo ha generato nuovi conflitti, ulteriori guerre, la popolazione civile è in una situazione di grave instabilità, soffre la fame e teme per la propria vita, in Siria, Libia, Iraq, Afghanistan e in diversi Stati africani. La conseguenza è che milioni di persone cercano di sfuggire a questo destino di incertezza, alla morte e alla fame, cercano una speranza di vita e vengono a cercarla in Europa. Ma anche l’Europa non può affrontare nella maniera migliore questo problema: è un’Europa che soffre di una sensibile crisi demografica e che ha il timore di accogliere questi profughi, in particolare quelli provenienti dai paesi islamici, che noi immediatamente coniughiamo con la paura del terrorismo e degli attentati. È vero che l’Islam non è il vero pericolo, ma la difficoltà di trovare soluzioni e risposte e la mancanza di un equilibrio al proprio interno porta gli Europei a difendere i propri valori identitari e a temere l’integrazione dei rifugiati nella nostra società. La conseguenza è quanto sta succedendo in paesi come Austria, Olanda, Francia – dove Marine Le Pen è vicinissima a vincere le elezioni –  e vediamo davvero reale la minaccia del fallimento dell’Unione Europea così com’è esistita fino ad ora. Anche nei paesi post-comunisti assistiamo all’ascesa di movimenti politici populisti. Viviamo una fase di grande confusione. È piuttosto facile mostrare nobilmente quelli che sono i temi da affrontare e trasporli sul grande schermo, ma questo non è sufficiente e si corre il rischio di apparire falsi, proprio come l’approccio nazionalista. Ci vorrebbe un approccio freddo, onesto, sincero, efficiente”.

La regista parla, poi, della sua esperienza come Presidente dell’European Film Academy e apre qualche spiraglio ad una nuova stagione di impegno cinematografico. Ci sono molti più cineasti europei che affrontano temi politici con gli elementi e il linguaggio propri della politica. In questi ultimi due anni la stessa cerimonia di premiazione organizzata dalla EFA è diventata molto più politica. Gli sceneggiatori presentano progetti che hanno le questioni politiche in primo piano. Forse, adesso, finalmente il cinema sta cominciando a rispondere ai problemi. “Ma il cinema del futuro deve essere capace di parlare del futuro e di parlare del passato, deve individuare un anello di congiunzione, deve essere il medium attraverso cui passa la realtà. Non deve soltanto descriverla, ma deve analizzarla”.

E la televisione? Cosa ha spinto Agnieszka Holland a dirigere numerose serie televisive? La regista spiega questa evoluzione attraverso un’analisi di quanto è avvenuto nel mercato cinematografico negli ultimi venti anni: sembra essere venuta meno quella che lei chiama “terra di mezzo” del cinema, quel territorio espressivo e produttivo nel quale si trattavano i grandi temi e si affrontavano i problemi importanti della società in maniera accessibile, affinché il grande pubblico ne potesse fruire in maniera ampia. “Una terra di mezzo che eravamo riusciti a creare negli anni Sessanta, negli anni Settanta e fino agli anni Ottanta, con la produzione cinematografica, non solo europea ma anche statunitense, che veniva presentata nelle grandi rassegne cinematografiche – a Venezia, a Cannes o a Berlino. È avvenuto poi un grande cambiamento in ambito cinematografico, non diversamente da quello musicale, per il quale si sono creati due estremi, mentre la terra di mezzo è scomparsa: o si creano film che hanno importanza a livello personale, un cinema d’autore che interessa ai festival ma non al grande pubblico oppure si realizzano le grandi produzioni, i blockbuster, che hanno lasciato una sorta di deserto. Questa è stata una vera tragedia per il cinema, perché è proprio quello il cuore che viene ricercato dal pubblico: il pubblico vuole vedere trasposti sul grande schermo i problemi della società, ma li vuole vedere affrontati con amore e in maniera fruibile”.

È accaduto così che le prime televisioni via cavo hanno seguito questa strada e hanno riempito questa terra di mezzo, riuscendo a portare avanti delle opere e delle produzioni innovative, con nuove tematiche ed una nuova filosofia narrativa da elaborare – non così commerciale e “bellamente stupida” come quella dei blockbuster. Lo stesso business plan è estremamente diverso rispetto a quello delle grandi case di produzione, molto più innovativo, flessibile e in grado di attrarre il grande pubblico. Ha aperto la strada la HBO, altri hanno seguito l’esempio, adesso vediamo Amazon e Netflix: “Mi sono resa conto – continua Holland – che potevo lavorare per la televisione affrontando questi temi a me cari e che potevo trattarli attraverso un linguaggio narrativo diverso, nuovo. Avevo la possibilità di esprimermi senza dovermi arrabattare per raccogliere i finanziamenti necessari per realizzare queste mie idee per il grande schermo. Se in Europa vuoi realizzare un film che rispecchi determinati standard, devi avere a disposizione almeno due milioni di euro e hai bisogno di avere nel cast dei grandi divi ed impieghi magari un anno a rincorrere le star per convincerle a partecipare al tuo film. Ma le grandi star, che vengono pagate milioni di dollari, non riescono a capire perché dovrebbero fornire il loro volto al tuo progetto per essere pagate un decimo rispetto a quello che solitamente percepiscono. E quindi è davvero frustrante per chi lavora nel mio ambito. Ho cercato di portare avanti ultimamente due progetti, ma è veramente difficile reperire i finanziamenti per poterli realizzare. In televisione tutto questo non è necessario, riesci a trovare la tua strada, a portare sul set attori originali, nuovi, sinceri, diversi rispetto al mainstream che siamo abituati a vedere. La prima esperienza televisiva è stata The Wire, che effettivamente rappresenta una dichiarazione politica, una dichiarazione su quella che è la società americana. In questo modo sono riuscita ad affrontare la questione etica e non soltanto i problemi, sono riuscita ad affrontare la complessità della storia in una maniera diversa. Oggi ci troviamo ad affrontare la dimensione etica in una maniera complessa rispetto alla situazione che si è verificata dopo la rivoluzione industriale, con i grandi romanzieri come Stendhal, Tolstoj o Dickens che riuscivano a portare avanti i temi sociali unitamente ai problemi etici. Noi dobbiamo cercare di fare altrettanto perché là fuori c’è un pubblico che ha davvero fame di questi argomenti. Quindi, quando mi è stata offerta la possibilità di lavorare in televisione ho deciso immediatamente di salire su questo treno”.

Il prossimo progetto cinematografico della Holland si intitola Il Ciarlatano e dovrebbe affrontare gli anni del “socialismo reale” degli anni Cinquanta nella ex Cecoslovacchia: “Sto seguendo contemporaneamente tre progetti, ma non so quale sarà il primo a vedere la luce. Per quanto riguarda Il Ciarlatano, si tratta di un progetto che sto realizzando in Repubblica Ceca e per il quale non ho bisogno di grandi budget o di grandi star. Non dovrei avere grossi problemi a realizzarlo. Collaboro con mia figlia Katarzyna e non è la prima volta. Ho co-diretto alcuni film con lei e talvolta le ho affidato la direzione di alcune scene dei miei film perché in lei vedo talento ed ispirazione. Fosse per me collaborerei con mia figlia più spesso, ma bisogna chiedere a lei se vuole lavorare con la madre. Proprio la settimana scorsa ha presentato il suo ultimo film, Amok, che è stato accettato al Festival di Edimburgo. In famiglia siamo quattro registe, io, mia sorella Magdalena, mia figlia Katarzyna e la sua compagna. Siamo molto fortunate, ci confrontiamo e collaboriamo spesso”.

Si chiude con una curiosità. Ad aprile, due famosi registi italiani saranno impegnati nell’allestimento di due opere liriche: Gabriele Salvatores è alla Scala di Milano per La Gazza Ladra di Rossini e Marco Bellocchio è al Teatro dell’Opera di Roma per Andrea Chénier di Giordano. Potrebbe essere una nuova sfida per Agnieszka Holland? “Il mio ex marito, Laco Adamik, è stato uno dei più importanti registi d’opera polacchi, quindi ho avuto contatti frequenti con il teatro lirico, un rapporto d’amore e di curiosità. Ascolto e guardo spesso l’opera. Ma non è sicuramente il mio mezzo d’espressione, più volte mi sono state offerte regie, le ho declinate: so che non sarei una brava regista in questo campo”.

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