Fenomenologia dell’immagine. Marco Bellocchio ospite di Sentieri Selvaggi

Da I Pugni in Tasca a Fai Bei Sogni: cinquant’anni di realtà e di visioni. Il regista bobbiese racconta la sua poetica cinematografica tra estetica del dettaglio e tempo che si fa storia

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Di Bobbio e della provincia piacentina Marco Bellocchio ha la saggezza acuta ed intrisa di esperienza, l’indole produttiva ed insieme diffidente e le peculiarità fonetiche dell’inflessione dialettale. A Bobbio, nel 1995, ha creato il Laboratorio Fare Cinema – Incontro con gli Autori e, nel 2005, il Bobbio Film Festival. Da Bobbio Marco Bellocchio (qui l’intervista con Sentieri Selvaggi per Fai Bei Sogni) arriva nella redazione romana di Sentieri Selvaggi per raccontare prima di tutto il nuovo film, Fai Bei Sogni – tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Gramellini (Longanesi, 2012) e che uscirà a dicembre in Franciae tracciare un affresco della sua metodologia filmica. Settantasette anni compiuti lo scorso 9 novembre, Leone d’Argento alla 28a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per La Cina è vicina (1967), Orso d’Argento – Gran Premio della Giuria al 40° Festival Internazionale del Cinema di Berlino per La condanna (1991), Leone d’Oro alla Carriera alla 68a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2011), David di Donatello alla Carriera (2014) e Globo d’Oro alla Carriera (2007) – solo per citare i riconoscimenti più prestigiosi – Marco Bellocchio ha attraversato cinquant’anni di cinema italiano senza mai perdere la propria, inconfondibile cifra stilistica.

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Nel suo cinema è scandito un senso profondo del tempo e della storia. Basti pensare a Vincere (2009), ambientato negli Anni Dieci del Novecento; a Nel Nome del Padre (1972), che prende avvio in un collegio nell’anno scolastico 1958-1959; a La Balia (1999), con protagonista la Roma umbertina di inizio Novecento; a Il Principe di Homburg (1997), tratto dall’omonimo dramma di Heinrich von Kleist (1808) ed ambientato nel 1675 durante le Guerre Nordiche; allo stesso Fai Bei Sogni (2016), con la scena del funerale in apertura ambientata alla fine degli anni Sessanta, precisamente il 31 dicembre 1969. Un viaggio per immagini nel tempo e nella storia: “Si tratta, in realtà, di un procedimento non così immediato. A proposito di Fai Bei Sogni, ho letto il libro di Massimo Gramellini e sono rimasto affascinato dalla storia. È chiaro che quella di Massimo è una storia tracciata nel tempo, un tempo lunghissimo, anche per una riduzione cinematografica. Il lavoro di sceneggiatura è stato quello di procedere per salti, per sintesi. Ho cercato di trovare delle immagini che nascessero da questa vicenda ma che, in qualche modo, riflettessero quello che ho sentito leggendo il libro. Non ho bisogno di creare immagini che mi appartengano, ma solo sentendo qualche cosa posso rappresentare delle immagini. Qui la storia attraversa le situazioni e si rappresenta sia nelle ambientazioni che tramite uno specifico oggetto che a quel tempo aveva un significato diverso rispetto ad oggi: la televisione”.

cyiic1fxeaagcn4Tra l’altro la televisione è un elemento concreto che si vede nei suoi film, come in Bella Addormentata (2012), ne Gli Occhi, la Bocca (1982) o Nel Nome del Padre: un oggetto da cui fuoriescono immagini e filmati, a creare un flusso visivo che si genera dal film e, al tempo stesso, prolifera al suo interno: “Per la mia generazione la televisione ha rappresentato un epocale cambiamento nella vita e nel costume, non diversamente da computer e cellulari per quelle di oggi. In passato la si viveva come una presenza pubblica. All’inizio pochissime famiglie possedevano una televisione e spesso la si guardava al bar, in provincia, all’interno di una saletta dedicata”.

A proposito del rapporto tra sfera privata e dimensione pubblica, spesso ricorrente nelle sue pellicole, Bellocchio spiega che il protagonista di Fai Bei Sogni, una volta cresciuto, diventa giornalista e come questa professione lo porti inevitabilmente ad avere una vita sociale e a parlare anche di cronaca. Così, nel film troviamo riferimenti alla politica e all’attualità, sia indirettamente con Tangentopoli sia direttamente con la guerra a Sarajevo, dove il protagonista si reca come inviato speciale: “C’è sempre un fine: ma non è quello di rappresentare l’Italia di quegli anni, quanto piuttosto di ritrovare costantemente delle rappresentazioni e delle situazioni che possano suggerire a Massimo una verità molto più complessa. È come se il film continuamente richiamasse Massimo indietro e lui cercasse sempre di eludere questa verità, quasi che la sua coscienza lo volesse proteggere. Ma ecco che ad un certo punto questa difesa si rompe”.

Un cinema di interruzioni, quello di Bellocchio. Proprio come la televisione che “interrompe” la vita: una modalità di racconto da zapping televisivo, una frammentazione che condiziona sempre di più la memoria. Come in altri film, anche in Fai Bei Sogni l’immagine televisiva diventa qualcosa in perfetta fusione con la storia che racconta. “Ma ad un certo punto salta anche questo rapporto. Lo si vede nella figura di Belfagor che Massimo richiama continuamente: un frutto della sua immaginazione, un qualcosa che lui si inventa. È una figura che lo accompagna e che riapparirà un’ultima volta quando Massimo è adulto, come se il gioco non fosse ancora interrotto, fino a fargli intuire la verità”.

Il regista, autore anche della sceneggiatura con Valia Santella e Edoardo Albinati, spiega che Gramellini ha lasciato la più totale libertà in fase di script e di riprese e che quindi si sente pienamente responsabile del prodotto cinematografico. E se Bellocchio si fosse “gramellinizzato” per non tradire lo spirito del libro? “Mi hanno riferito che molti lettori di Gramellini hanno espresso il timore di rimanere delusi e ho letto una critica in cui mi si imputa questo. Ma non è affatto così. Tutte le immagini e anche le parole che sono nel film le sottoscrivo, ma non ho bisogno di affermare un’autorialità rispetto al libro”.

FAI BEI SOGNI – Marco Bellocchio racconta il suo film a Sentieri Selvaggi from sentieri selvaggi on Vimeo.

Le scene più forti di Fai Bei Sogni sono fuoricampo o prive di dialoghi. Come vive il processo di trasformazione di un’emozione forte sul piano del parlato ad un’emozione forte visiva?: “Sono processi su cui non rifletto particolarmente. L’esperienza mi dà un certo sentimento rispetto a questa trasformazione. Nel film ci sono numerose scene presenti anche nel libro, ma in un modo diverso. Nel libro c’è spesso un tono scherzoso, tipico dello stile dell’autore, mentre nel film è assente o è declinato in una forma di ribaltamento provocatorio. Anche la seduzione ha forme diverse nel film. Fare un film mi obbligava a cambiare tutto, rispettando al tempo stesso il libro. I linguaggi sono naturalmente diversi, cambiare è un’esigenza automatica”.

fai-bei-sogniIn questo film c’è Bérénice Bejo. Sembra esserci un fil rouge nel suo cinema dato proprio dalla presenza di molte attrici francesi: “Diciamo che è una presenza che rispondeva a necessità materialistiche, nel senso che – in passato più che oggi – le coproduzioni erano abbastanza vincolanti: non che imponessero, ma richiedevano la presenza di attori stranieri. Allora il pubblico lo accettava maggiormente e anche per noi registi era una realtà tollerabile. A quei tempi era tutto doppiato, per cui in realtà si facevano due film: uno si girava e poi c’era il doppiaggio con la scelta delle voci ed era come ricreare il film. Naturalmente, c’erano anche delle ragioni che riguardavano il rapporto con il personaggio. Ad ogni modo, il rapporto con attori e attrici francesi, soprattutto, è stato sempre ottimo. Ho avuto qualche problema solo con Isabelle Huppert, che resta comunque una grandissima attrice”.

Il gesto è spesso un elemento presente nel suo cinema, un gesto quasi istintivo che non dà la sensazione di nascere da una scena costruita, piuttosto sembra un impeto che avviene lì sul momento: “In un film c’è sempre un margine di improvvisazione. Nella mia formazione registica andavo a vedere i film in provincia di Piacenza. Quando poi, nel 1969, sono andato al Centro Sperimentale a Roma, una delle esperienze più importanti è stata la scoperta del cinema muto. Avevo visto qualche film muto di Chaplin, ma conoscere la grande stagione del cinema muto tedesco e russo ha esercitato su di me un fascino potentissimo. Non si tratta di fare a meno delle parole, ma è come se mi sono convinto che, in un certo senso, meno parole ci sono e meglio è”.

E le emozioni? I sorrisi? Il pianto? Bellocchio lamenta il fatto che nei film di oggi, anche in televisione, ci sia un abuso di lacrime: piangono tutti. La lacrima ha certo la sua importanza, ma non basta piangere. Ricorda come molti anni fa per un’attrice il saper piangere fosse un segno di “distinzione”. Ma un momento, c’è pianto e pianto: “Prendiamo il pianto di Renée Falconetti ne La Passione di Giovanna  d’Arco (1928) di Dreyer. C’è un primo piano con lei che piange: un’immagine straordinaria, indimenticabile, unica”.

Il cinema di Bellocchio è elaborazione di immagini primarie. Ogni film ha una sua architettura e risponde a un’urgenza drammaturgica diversa: coerenza ed arbitrarietà, insieme. Anche per Fai Bei Sogni l’impulso iniziale nasce da un’immagine: un quadro dipinto dal regista e raffigurante un bambino ad un funerale. Proprio l’immagine di Massimo nel corridoio che aspetta la bara che entra. Ma non si tratta di mediare tra le due immagini, ciascuna ha la sua necessità.

marco_bellocchio_set_nel_nome_del_padre_01Un film – spiega Bellocchio – non nasce da un’idea o da un messaggio, ma da un’immagine e su di essa si sviluppa. Naturalmente, ci sono film che esprimono degli ideali. Nella scena tra Nina e Trigorin ne Il Gabbiano (1977) ci sono dei riferimenti sociali e politici. Ma lo sentirei come una cosa falsa se adesso annunciassi di girare un film sull’immigrazione perché, da artista, devo occuparmi di questo tema. L’interesse deve scaturire da un dettaglio, da un’immagine”.

Un’idea di visione che è anche elogio della lentezza, della concentrazione, della dedizione. La dissociazione attuale, quella eccitazione compulsiva che rende possibile una contemporaneità tra azioni diverse – come guardare un film su uno smartphone o su un computer mentre si mangia o si parla al telefono – spaventa il regista. Non è una questione di sacralità della settima arte, ma il rischio concreto è quello di guardare con superficialità. “La bellezza è profonda, esige dedizione. Se ti frammenti troppo, non la cogli. I nuovi linguaggi cinematografici hanno certo la loro ragione d’essere, ma io appartengo ad un’altra generazione”.

La musica come componente fondamentale: da Ennio Morricone a Nicola Piovani, da Carlo Crivelli a Riccardo Giagni. E poi Pink Floyd, Metallica, Modugno, Morandi, Lauper, Schubert, Verdi, Offenbach, Strauss, Šostakovič, Piazzolla. Una musica che, così come un film, è prima di tutto una questione di tempo: simultaneo, non successivo. Questo è uno dei motivi per i quali il cinema di Bellocchio ricorre spesso alla musica di repertorio: “È attraente perché puoi montare con la musica. Facciamo sempre in modo di avere delle tracce musicali mentre montiamo il film, è innaturale che la musica arrivi dopo. Se hai dei problemi di immagine non è che la musica te li può risolvere. La musica è la terza immagine dopo il frammento visivo e le parole. Tuttavia, esistono anche grandi capolavori senza musica: pensiamo a Buñuel e al suo Tristana (1970)”.

Nel cinema di Bellocchio è estremamente difficile cogliere citazioni ad altre pellicole ed influenze esterne. La costruzione filmica coincide con un’autonarrazione continua, un vertiginoso stream of consciousness che male e poco si presta a letture sinottiche. Ed è ciò che contribuisce a renderlo unico e personale. Una tendenza ad evitare il manierismo, senza eccedere nell’autoreferenzialità e nel pregiudizio, che nasce dalla volontà di procedere autonomamente lungo una strada congeniale alla propria vocazione artistica.

Il regista si sofferma poi su un’altra tematica ricorrente nella sua poetica: la relazione tra verità storica e finzione cinematografica: “In Buongiorno, Notte (2003) ci sono delle immagini di Aldo Moro che nascono non da una delusione, ma da una sorpresa. In quei giorni pensavo fermamente che venisse liberato e ho immaginato queste scene di conseguenza. Credo che lo pensassero anche tanti italiani. Non si tratta quindi di una menzogna. Il discorso dell’annullamento e della negazione è anche uno dei temi di Fai Bei Sogni: per sopravvivere Massimo deve mentire, se non si inventa qualcosa soccombe. Nel bambino si tratta di un gioco, di una fascinazione dell’immaginazione ma, crescendo, questo esercizio di negazione può anche diventare un modo brillante di vivere”.

Il passato inteso non come voce della coscienza, ma come voce dell’inconscio, in un capovolgimento dell’archetipo di Pinocchio. Un passato filtrato spesso attraverso le immagini di archivio, soprattutto novecentesche, che finiscono per diventare il repertorio immaginario degli stessi personaggi, in una commistione inesauribile tra privato e pubblico. Un procedimento poietico che nasce nell’atto stesso di immaginare una scena: “Sono processi che mi attraggono: un magma in cui ci sono tante cose assieme ed io mi sforzo di farne stile e forma, non semplicemente documentazione”.

sangue-del-mio-sangue-disponibile-il-poster-234259-1280x720Il ribaltamento di una storia e di un “tipo” dato per assodato – che sia provocatorio o funzionale alla messinscena – è presente anche in Sangue del mio Sangue (2015): “Ho pensato di ricreare la vicenda della monaca di Monza, una storia che mi ha sempre affascinato. È la storia di una donna di carattere che ha subito tante violenze, ma che possiede una personalità quasi sovrumana. Saprà resistere in quella prigione e mantenere la sua libertà”. Come spunto, il film nasce proprio dal capovolgimento di quella figura archetipica: il personaggio storico viene graziato dal cardinale Borromeo e vivrà tanti anni in un’aura di santità. Benedetta, la protagonista del film, dopo tanti anni di prigione, non è pentita e quando il muro in cui è segregata viene fatto abbattere riappare ancora giovane e bellissima. In questo modo il regista ha reinterpretato una tragedia familiare – il suicidio per amore di suo fratello gemello – con uno spirito più libero di quanto avesse fatto in precedenza: “Ne Gli Occhi, la Bocca non sono riuscito a rappresentare un episodio altrettanto drammatico, forse mi ha bloccato la presenza di mia madre, il fatto che allora fosse ancora viva. In Sangue del mio Sangue ho trovato una maggiore profondità di interconnessione tra qualcosa di estraneo a me e la mia esperienza personale”.

Concetti come quelli di “liberazione finale” e di “resurrezione” e come quello della disfunzionalità della famiglia borghese pure segnano in profondità il cinema di Bellocchio e sono strettamente legati a questa irresistibile vocazione a riscrivere la storia, quella propria e quella degli altri.

In conclusione, il regista non si sbilancia in un giudizio sul cinema contemporaneo, limitandosi ad osservare che non mancano registi notevoli e che il cinema italiano di oggi vive una stagione piuttosto vivace. Il ricordo della sua formazione, poggiata saldamente su un approccio dapprima realistico e poi visionario, lo porta però a “rifugiarsi” nel cinema di un tempo e a citare i suoi autori di riferimento: su tutti Luis Buñuel – “ma ci vuole tempo per capirne la grandezza e la genialità” – o ancora Carl Theodor Dreyer. E come non ricordare film come L’Atalante di Jean Vigo (1934), la cui celeberrima scena subacquea è riconoscibile – caso pressoché unico – in un frammento di Sangue del mio Sangue.

Buonanotte, Bellocchio. Facciamo bei sogni.

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