First Man – Il primo uomo, di Damien Chazelle

È tutto tranne che epico, non è neanche storico, o celebrativo. Sembra piuttosto un film sullo straniamento dei corpi, sugli squilibri percettivi e sensoriali.

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“Questa era una storia che doveva svolgersi tra la Luna e il lavello della cucina”

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La mano sopra il vetro.

C’è una curiosa coincidenza di immagini, indispensabili frame finali, tra i due film che hanno aperto Venezia ‘75, First Man e Sulla mia pelle, con quello che è forse il miglior film della stagione passata, quel Blade Runner 2049 guarda un po’ anche questo interpretato da Ryan Gosling.  Tutti questi film vedono, nella scena finale, il gesto di una mano che si avvicina a un corpo, ma nello spazio tra le persone ci sta un vetro di mezzo. E la mano si appoggia sopra al vetro, come fosse una carezza traslata, quasi fosse un “touch” digitale, che rimanda a scenari ormai presenti di corpi tattili a distanza.

Padre/figlia, in Blade Runner 2049, Sorella/Fratello in Sulla mia pelle, Marito/Moglie in First Man. Sono tutti corpi separati, disgiunti in qualche modo dalle avversità della vita. Neil e Janet Armstrong (rispettivamente Ryan  Gosling e una sorprendente Claire Foy, protagonista del recente Unsane di Soderberg), sono stati separati dalla perdita della loro figlioletta, per una malattia incurabile, e questo dolore sembra segnare tutta la loro storia e, forse, tutto il film di Damien Chazelle.  Che nell’affrontare il libro “First Man: The Life of Neil A. Armstrong” di James R. Hansen, sembra concentrare tutta la sua attenzione non tanto e non solo sull’aspetto importante della vita privata dell’uomo che per primo mise piede sulla Luna, quanto soprattutto su una sorta di lavoro meticoloso sulla percezione. Ed ecco che First Man è tutto tranne che un film epico, non è neanche un film storico, o celebrativo. Sembra piuttosto un film sullo straniamento dei corpi, sugli squilibri percettivi e sensoriali. Sin dalle prime immagini siamo infatti ricacciati in un contenitore claustrofobico e oppressivo, dove i rumori, le esplosioni dei motori, i cigolii del metallo e i respiri degli astronauti emergono con forma in una sorta di “primo piano sonoro”. “Volevo sottolineare quanto fosse pericoloso andare nello spazio, con questi uomini che stavano – letteralmente – dentro una specie di barattolo di latta, o una bara”, sottolinea Chazelle, che proprio sull’aspetto della “povertà tecnologica” e della piccolezza degli spazi ha concentrato la sua attenzione (ossessione?).

Ne esce fuori un film stupefacente, quasi un trip allucinogeno, dove la morte (iniziale della bambina, e poi dei vari piloti scomparsi nelle prove di lancio) e la percezione deformata sembrano costringere lo sguardo e il corpo dello spettatore in un contenitore malinconico e ossessivo, deformato e stressante.

Qualcuno ha un coltellino svizzero?” chiede a un certo punto un tecnico prima del lancio dell’Apollo 11, per poter stringere una vite che si era allentata… ecco che la massima espressione della forza della tecnologia dell’uomo del XX secolo – l’uomo sulla Luna – viene affidata a componenti terribilmente deperibili e materici. Chazelle sembra volere a tutti i costi rappresentare un “micromondo”, fatto di lanci dentro cabine sempre più piccole e piene di manopole e cavi, incredibilmente analogico, creando un effetto magnifico di “futuro/vintage”.  E in questo film fatto sempre di spazi stretti e angusti, di primissimi piani opprimenti, la domanda che Armstrong riceve, dal figlio, prima di partire per la Luna è semplice e terribile: “Non ti sentirai solo lassù?”.

Ecco, il Neil Armstrong ritratto da First Man ci appare come un uomo cordiale, che cerca di godersi l’American Way of Life con i figli e i vicini, con le feste in giardino, ma che non sembra più riuscire a superare il “muro del suono” che si e frapposto tra lui e la moglie Janet. Che pure lo sostiene per tutta la sua “magnifica ossessione”, e l’immagine di lei, seduta da sola sul divano di casa, che ascolta da una radio la “diretta” della Missione Apollo, resta forse la rappresentazione migliore della “solitudine dell’attesa”, l’ancorarsi a una speranza per un viaggio mai fatto prima nella storia dell’uomo e dove le possibilità di non ritorno erano altissime.

Ci siamo abituati ai funerali”, è la frase che segna, a un certo punto, il passaggio di una storia di un’impresa folle e pericolosa, resa necessaria e in tempi troppo rapidi per evitare rischi dall’accelerazione della Guerra Fredda di quegli anni.  E mentre Chazelle riempie il film di voli caduti, di vomitate dopo le prove di volo, di corpi sballottati nella cabina e nello spazio alla ricerca di una “nuova frontiera”, quello che emerge nell’ipersoggettività di un film fatto di tanti primissimi piani è quel primo sguardo, dopo l’atmosfera, dove la Terra appare in tutta la sua bella e magnifica piccolezza. Allontanarsi, per vedere meglio. Perché un diverso Punto di Vista ti cambia la prospettiva….

 

Titolo originale: id.
Regia: Damien Chazelle
Interpreti: Ryan Gosling, Claire Foy, Jon Bernthal, Pablo Schreiber, Kyle Chandler, Jason Clarke, Corey Stoll, Patrick Fugit, Lukas Haas
Distribuzione: Universal
Durata: 141′
Origine: USA 2018

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.67 (3 voti)
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