Il castello nel cielo, di Hayao Miyazaki

Dalle profondità delle miniere ai cieli di Laputa, Miyazaki attraversa spazi e mondi per lanciare un grido d’allarme ad una società sempre più disconnessa dalla natura. Necessario oggi come 40 anni fa

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I motivi per cui Il castello nel cielo occupa ormai da quasi quarant’anni un posto essenziale nella filmografia di Miyazaki, non sono da ricondurre esclusivamente alla sua natura di “testo fondativo”. Certo, il film con cui esordisce ufficialmente lo Studio Ghibli ha già di per sé un valore storico assoluto per come denota una novità estetica (e soprattutto produttiva) nel contesto ultra-omologato dell’industria animata nipponica. Ma bisogna comunque ricordare che il Ghibli è sin dall’inizio l’eccezione, non la regola: la sua configurazione da azienda/brand, unita alla necessità di costruire una propria identità editoriale attorno ad un corpus omogeneo di animatori stipendiati, entra ancora oggi in conflitto con il mondo frastagliato dell’animazione giapponese, fatto di contratti di prestazione precari, artisti freelance e tempi di lavorazione spietati. Ciò che allora rende davvero influente l’opera, e che le permetterà di segnare l’immaginario animato nazionale – e per estensione, quello mondiale – è il grado di maturità raggiunto qui dal maestro, da un punto di vista tematico, estetico, se non addirittura politico.

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Nella storia della principessa ereditaria Sheeta e del suo compagno d’avventura Pazu, bambini/eroi destinati a salvare il regno celestiale di Laputa dalle smanie imperialiste di uomini egoistici e guerrafondai, c’è tutto il cuore tematico della poetica miyazakiana: il contrasto tra il benessere collettivo e i vituperati ideali individualisti, la perdita di connessione tra il mondo naturale e umano, l’uso improprio della tecnologia e la deriva militarista della corsa al progresso, fino ad arrivare all’affermazione di un sogno ecopacifista da sublimare attraverso l’azione di personaggi infantili – e perciò non contaminati dalla sete di potere capitalista che corrompe l’animo degli adulti. In questo senso, Il castello nel cielo non solo si pone in continuità con le riflessioni apocalittiche degli esordi registici del maestro, visibili nei fenomeni cataclismici di Conan il ragazzo del futuro (1978) o nelle atmosfere tossiche di Nausicaä della valle del vento, ma ne ribadisce con forza anche gli ammonimenti di fondo: perché se gli individui, sembra suggerire Miyazaki, continuano a perseverare nel soggiogamento della natura, prima o poi l’umanità rimarrà schiacciata dalla sua stessa ossessione per il dominio.

Ecco allora che la cornice fantastica in cui si muovono i due protagonisti serve ad affermare l’importanza dell’idealismo in un mondo che ha perso la capacità di immaginare un rapporto organico con l’ambiente circostante. Il viaggio dalle profondità della terra all’isola volante di Laputa si fa così veicolo di fantasie pacifiste che portano Il castello nel cielo a prefigurare una nuova realtà, più equilibrata e priva di prevaricazioni. In cui la relazione con la natura può ritornare idealmente ad una dimensione agraria, anche attraverso la collisione con una fantomatica civiltà arcaica – altamente tecnologica e quindi “antagonistica” per la società industriale – che spinge l’uomo a rinunciare ai bisogni di sopraffazione del mondo naturale.

Come sempre accade in Miyazaki, ad una realtà militare/governativa in cui l’unico valore è la corruzione morale, corrisponde la purezza incontestabile del mondo infantile. Se nel character design Sheeta è l’immagine speculare della Lana di Conan, per idee, attitudini e sentimenti è la mediazione ideale tra la temerarietà di Heidi o Nausicaä e l’integrità virtuosa che caratterizzerà tutte le eroine della sua filmografia. Proprio come Kiki, Chihiro o Ponyo, Sheeta è il ritratto di una forza liberatoria, incubatrice di un potere ancestrale – qui metaforizzato dall’aerogemma – che scardina le logiche imperialiste della società, in modo da ripristinare l’equilibrio ecosistemico. È da lei che parte il percorso catartico de Il castello nel cielo, e più in generale del cinema ghibliano tout cour. Una direttrice che trova la sua origine, non a caso, nella figura del volo: cioè l’immagine più cara al regista giapponese, che dai meandri della biografia – il padre riparava aerei di guerra – attraverserà trasversalmente tutte le narrazioni del cineasta fino a Si alza il vento, in modo da comunicare un’idea di liberazione/purificazione, che solo un utilizzo positivo della tecnologia può davvero concretizzare.

A quasi quattro decadi di distanza, Il castello nel cielo si è ormai elevato a materia di leggenda. Eppure nonostante gli anni passino e gli animatori di tutto il mondo continuino a dedicargli omaggi, il film riesce ancora a stregare, soprattutto per la fluidità con cui transita dall’azione alla contemplazione. Pensiamo al momento in cui i due eroi approdano sul regno del cielo per evitare che l’arsenale bellico dell’isola cada nelle mani del dittatoriale Muska: qui è come se Miyazaki ci stesse invitando ad unirci una realtà eterea, sublime, dove è possibile provare un senso di meraviglia anche nel pieno della devastazione. Davanti alla visione di Laputa si resta perlopiù indifesi, assorbiti da immagini estatiche che indicano le logiche a cui dovrebbe tendere un mondo giusto, suggerendo per contrasto le nefandezze che la società palesa nella nostra meschina realtà. È proprio qui che il regista sollecita chi guarda ad agire. Perché l’umanità, a detta del cineasta, può anche aver compromesso il destino del pianeta. Ma non per questo bisogna rinunciare alla possibilità di salvarlo dalla dissoluzione a cui sta andando, inesorabilmente, incontro.

Titolo originale: Tenkū no Shiro Laputa
Regia: Hayao Miyazaki
Voci: Keiko Yokozawa, Mayumi Tanaka, Minori Terada, Kotoe Hatsui, Fujio Tokita, Ichiro Nagai, Hiroshi Ito, Machiko Washio, Takumi Kamiyama, Yoshito Yasuhara
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 124′
Origine: Giappone, 1986

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
Sending
Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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