In guerra per amore, di Pif

Pif fatica un po’ a tenere le fila di tanti livelli, la ricostruzione, il sentimento e l’apologo politico, e non rinunciare ai vezzi che caratterizzano il personaggio aumenta io straniamento

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Questo secondo film di Pif è un oggetto strano, che cerca di tenere insieme un incedere quasi favolistico e ricercatamente sghembo e naif con l’abituale afflato divulgativo del suo autore, legato stavolta ad una resa drammaturgica del “rapporto Scotten”, con cui il capitano dell’esercito USA rivelava gli accordi sponsorizzati da Lucky Luciano tra Stati Uniti e Mafia per una liberazione di comune accordo della Sicilia fascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

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Quando funziona, come nel j’accuse finalmente esplicitato in chiusura che mostra i primi politici democristiani approfittare del patto tra gli americani e i malavitosi messi come ricompensa a capo di tutte le istituzioni locali, In guerra per amore diventa una sorta di manifesto produttivo principe delle traiettorie Wildside, quasi come fosse un prequel di 1992.
Quando arranca, è soprattutto per via del modello di comicità alla Vincenzo Cerami che lo script insegue ostinatamente, in cui ogni sketch e ogni battuta deve per forza di cose spiccare il volo verso una malinconia gentile da neorealismo magico dichiarato: il film è dedicato a Ettore Scola, e il modello di ispirazione di partenza è Tutti a casa, ma se di Comencini proprio si deve parlare, l’operazione pare quasi più debitrice del Pinocchio televisivo, abitata com’è da figure quasi da fantasia ancestrale come il duo di derelitti Saro e Mimmo, o il mefistofelico Don Calò – un altro gancio con il Cerami autore per Benigni, a cui Pif sembra guardare anche per la caratterizzazione del suo goffo protagonista, e per la poesia minima, delle piccole cose, su cui sono costruiti i tormentoni, i rimandi, gli ammiccamenti (il selfie davanti al ponte di Brooklyn che nessuno capisce…), i simbolismi e le allegorie.

in-guerra-per-amore-miriam-leonePer veicolare una indubbia sovraesposizione di metafore e segni scoperti, alcuni dei quali difficilmente difendibili (la statua di Mussolini incastrata a testa in giù tra i fili per stendere i panni in piazza rimane un’immagine imperdonabile), Pif e i suoi autori ricorrono al filtro della visione in soggettiva di un bambino e della sua speranza di vedere un giorno gli asini volare, ancora una volta un espediente in direzione Cerami/Benigni.
Se la scintilla che innervava il fascino di La mafia uccide solo d’estate era il continuo andirivieni con il linguaggio del Pif “d’inchiesta”, stavolta l’autore fatica un po’ dietro la mdp a tenere le fila di un racconto che agisce su così tanti livelli, la ricostruzione, il sentimento e l’apologo politico, e non rinunciare ai vezzi che caratterizzano il personaggio, quella precisa voce narrante e un certo cipiglio d’incaponimento d’assalto, è una decisione che finisce per aumentare il senso di straniamento generale.

Nell’incertezza di una narrazione così irregolare e non esente da qualche pesante forzatura, fanno sempre gioco vecchi infallibili cavalli di battaglia della commedia all’italiana come le incomprensioni lessicali tra la lingua straniera e il vernacolo, lo scontro stridente tra usanze popolari e modernità d’esportazione, l’eroe vigliacco che ritrova il coraggio solo per le cause più nobili: l’azzardo più grande di Pif non è tanto nell’aver diffuso la tesi esplosiva del film quanto di aver voluto trovare la sua urgenza espressiva ancora necessaria in una forma così stagionata.

Regia: Pif

Interpreti: Pif, Miriam Leone, Andrea Di Stefano, Stella Egitto, Aurora quattrocchi

Distribuzione: 01 Distribution

Durata: 99′

Origine: Italia 2016

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