La ballata di Damon Albarn: il tempo tra il Britpop e Wembley

Il nuovo disco The Ballad of Darren, la reunion dei Blur e il tour che oggi tocca l’unica data italiana a Lucca: come Damon Albarn canta ancora le nostre estati, ripartendo dal concerto di Wembley

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Seeing through the coma in our lives
Something so bright out there, you can’t even see it
Are we running out of time?
Something so momentary that you can’t even feel it

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Blur – The Heights

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Un giacchetto sportivo può cambiarti la vita. Quando Damon Albarn torna sul palco per i bis indossando una variante dell’iconico giacchetto Fila del video di Girls and Boys l’arena di Wembely esplode. È la madeleine di una generazione di adolescenti 90s, quella colpita in pieno dal treno della nostalgia di questi anni Venti. Sono passati trent’anni da quando quel biondino inglese apparve sugli schermi di MTV con un ritornello ipnotico diventato un inno del Britpop e il pubblico che accoglie i Blur per la prima volta nello stadio di casa è sì eterogeneo, ma i quarantenni e i cinquantenni sono la maggioranza. Sono loro i nostalgici testimoni della Cool Britannia. Del pop di chitarre, trombe e Fred Perry che magnificava l’essere giovani nonostante le inquietudini di fine millennio e la spazzatura della vita moderna, quando Damon Albarn scongiurava emotivi millennium bug dicendo che “End of a Century is nothing special”.

In tutti questi anni i Blur non si sono mai veramente lasciati, hanno fatto altro – chi la politica chi il formaggio (!) – Albarn ha inseguito i suoi fantasmi in Africa e in Islanda, accentuando il lirismo e l’intimità sempre presenti nei suoi testi con melodie sempre più minimali, alla ricerca di suoni estremamente lontani dall’energia debordante di Parklife.

Per i Blur non è il primo grande ritorno. C’era stata la trionfale accoglienza di Glastonbury nel 2009, quando il pubblico aveva cantato per minuti e minuti l’“Oh my baby, oh my baby, Oh why, oh my?” di Tender, dimostrando alla band che non era stata dimenticata anche se l’era BritPop sembrava ormai così lontana. C’erano stati i festival e un nuovo album, The Magic Whip, a farli conoscere alle nuove generazioni.

Ma non c’era mai stata Wembley, mai la consacrazione in casa, quando vuoi vedere la tua squadra conquistarsi il trofeo nel proprio stadio, sotto la sua curva, perché i simboli contano ancora, anche in questo mondo che fagocita tutto alla velocità di un post.

Arriva allora il week end dell’8-9 luglio. Una doppietta di date per ricordare ciò che è stato e forse lasciarlo andare definitivamente. Per quanto Damon Albarn nelle interviste ribadisca sempre di vivere nel presente, di non essere una persona nostalgica, la sua scrittura è quanto di più simile all’obiettivo fotografico di Christopher Isherwood: “I am a camera with its shutter open, quite passive, recording, not thinking. Recording the man shaving at the window opposite and the woman in the kimono washing her hair. Some day, all this will have to be developed, carefully printed, fixed.”

Dalle fotografie (Photographs you are taking now) del suo Everyday Robots, un presente che è già passato prossimo, a quelle di The Ballad of Darren, il nuovo album siglato Blur, ma chiaramente un disco solista di Albarn suonato e impreziosito dalla band, i due giorni a Wembley diventano scatti analogici per recuperare collettivamente, col pubblico che fu, una stagione irripetibile, l’ultima pre Internet, pre social, in cui la Londra dei Blur era per tutti the place to be e sfornava mode non solo musicali, ma anche cinematografiche (Trainspotting) e letterarie (Hornby, Coe & co.).

Due giorni per avvolgere il nastro, tornare indietro e guardare ancora quel mondo che gira out of time. Il tempo con i Blur è una questione essenziale: quello che credevamo di avere, quello che è trascorso, quello che rimane. Damon Albarn ha sempre cantato della fine delle cose, di un secolo, di una relazione e l’estasi del pogo su Parklife e Song 2 si somma – per lui come per noi tra il pubblico – alla malinconia struggente di To The End e The Universal. Due pezzi che per chi ricorda i video in rotazione sui canali musicali raccontavano il tempo anche con un look ultra cinefilo: dai flashback di L’anno scorso a Marienbad di Resnais alle (atmo)sfere kubrickiane di un futuro distopico.

Il concerto si chiude – e non poteva essere altrimenti – con The Universal. Con quel testo che guardava al futuro con un sentimento incerto di smarrimento e speranza, sorretto dalla potenza degli archi, un rito collettivo che catapulta su Wembley luci, coriandoli, in una sinestesia abbagliante ed emotivamente deflagrante.

Questo tempo che è trascorso e ci ha irrimediabilmente cambiati (come vorremmo poter dire oggi No one here is alone?) è quello che fa commuovere Albarn alla fine di Under the Westway, raccogliendo gli applausi di una folla che vorrebbe abbracciarlo e dirgli che grande artista è stato dentro e fuori i confini del BritPop. Ed è quello che si prova ascoltando questa nuova “Ballata di Darren”, una raccolta di incertezze private e collettive, così contemporanea e così catartica. Non stiamo forse tutti nuotando in una piscina azzurra sotto un cielo che incombe minaccioso?

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