La mia vita con John F. Donovan, di Xavier Dolan

L’opera in USA svela forse definitivamente l’anima del suo autore, in una sorta di versione sintetizzata del dolanismo, di elenco di dichiarazioni programmatiche lette a Hollywood. Un manifesto?

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L’esperimento americano di Xavier Dolan è forse il suo film più sfacciato: come spesso accade a chi cerca di restituire il proprio stile tra le maglie dell’industria hollywoodiana, il risultato è una sorta di versione sintetizzata del dolanismo, quasi una serie di dichiarazioni programmatiche. Visto così, La mia vita con John F. Donovan svela forse definitivamente la vera anima del suo autore, e rilancia ancora una volta la problematicità dell’approccio critico a queste forme di cinema. Nonostante il “fallimento” (programmatico?) dell’operazione, Xavier Dolan continua ad essere lo sguardo-simbolo di questa generazione, lo attesta quantomeno la sfrontatezza con cui il regista inserisce le indicazioni di lettura e decifrazione della sua stessa storia, all’interno del rimpallo intrecciato delle immagini.
La ridondanza delle cornici narrative incastonate l’una nell’altra trova così giustificazione proprio nella formula del manifesto: ben lontano dall’attuale aura di “esperimento sfortunato”, questo film è in realtà irrinunciabile per settare le traiettorie della filosofia dolaniana, nel bene e nel male. Ed è probabile che il netto rifiuto a cui l’opera è andata e sta andando incontro da parte di un’intera ala della critica e di fan della prima ora contribuisca e supporti questa interpretazione.

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L’espediente dell’intervista che Rupert Turner rilascia alla giornalista engagée Newhouse permette a Dolan di chiarire una volta per tutte la sua posizione nei confronti dell’immaginario cinematografico, non a caso proprio adesso che le porte della mecca hollywoodiana gli si sono aperte.
Quando Rupert dichiara di non poter ricordare “un nome così poco comune come Audrey” (che è come si chiama la reporter interpretata da Thandie Newton) è l’intera concezione di sacralità inviolabile e necessaria del passato e del “classico” a venire oscurata: Rupert, del passato, preferisce ricordare altri stereotipi, quelli dedicati all’annoiata disperazione e relativa autodistruzione della star del piccolo schermo John Donovan. Di fronte ad ognuna delle sequenze di eccessi e di sbrocchi isterici dei personaggi, sentiremo però la voce di Audrey Newhouse sistematicamente “spezzare” la potenza emotiva dell’istante, dichiarandone la prevedibilità e lo sbilanciamento verso un latente senso del ridicolo.
Ma Rupert e Dolan la difendono questa esagerazione senza vergogna, questo dispositivo così costantemente esagitato e scomposto: non si tratta di un linguaggio meno “classico”, dannazione, ma di un classicismo che pone le sue basi nei telefilm del palinsesto pomeridiano, nei rotocalchi per teenager, nei tabloid strappalacrime, in una memoria che non ha alcuna intenzione di passare da testi che non abbiano una sigla pacchiana montata su musica a palla in apertura.

L’intero armamentario di sequenze clippate liberatorie, confronti mucciniani tra crisi violente e strilli, riappacificazioni materne e sessualità esplorate al neon assume così il tono della riaffermazione costante – e più volte letteralmente sottolineata dai proclami del Rupert “narratore” e dalle epistole di Donovan – della dignità filmica di questo materiale come al solito grossolano, sgraziato, sinceramente lanciato verso una gestione istintiva degli istanti gonfiati fino a farli puntualmente e scientificamente brillare.
Come la pila di lettere del fittissimo scambio tra Rupert il piccolo fan e John il divo, tutto questo finisce per rappresentare un accumulo di dichiarazioni di stile e poetica, post-it e promemoria in forma quasi di appunto impossibile da montare e “risolvere” (intere linee narrative sono chiaramente finite nei tagli alla moviola, alla stregua com’è noto di personaggi del tutto eliminati dal cut definitivo), e che urla probabilmente con chiarezza un’unica cosa: pur non ricordando i classici, è proprio quello di Xavier Dolan l’unico cinema classico possibile di questi tempi (basti a dimostrarlo, per dire, la corsa-con-abbraccio sui marciapiedi di Londra tra Rupert e mamma Portman…).

Titolo originale: The Death and Life of John F. Donovan
Regia: Xavier Dolan
Interpreti: Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Ben Schnetzer, Kathy Bates, Sarah Gadon, Thandie Newton, Susan Sarandon, Emily Hampshire, Michael Gambon, Chris Zylka, Amara Karan, Ari Millen
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 123′
Origine: Canada, USA, 2018

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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